E anche il Lider Maximo se n’é andato. Per anni ho detto che bisognava andare a Cuba prima che finisse tutto e mò il tempo è scaduto. Lo sapevamo tutti che stava male ed era più di là che di qua ma sembrava lo stesso che ci sarebbe sempre stato, quasi che quella sagoma barbuta e cazzuta fosse l’incarnazione stessa dell’isola. Su di lui è stato detto e scritto di tutto negli ultimi sessant’anni, sempre descritto a tinte forti: per qualcuno un eroe, per molti uno spietato dittatore. Cosa ne pensino davvero i cubani non posso saperlo e di sicuro anche loro hanno avuto sentimenti contrastanti rispetto alla sua figura. Siccome in questi giorni i tuttologi da tastiera si stanno sperticando in valutazioni senza esperienza, mi pare il caso di dire la mia basandomi su analisi e approfondimenti di chi ha frequentato con assiduità e senso critico Cuba e, in genere, l’America Latina. Ovvero: per una volta anch’io mi attacco agli scritti dei giornalisti, ché non sono più figo degli altri.
Il Lider Maximo. Chi ne parla e perché
Mi è molto piaciuto il testo scritto da Lia De Feo, blogger della quale non avevo la minima idea fino a ieri ma che ha scritto un pezzo dannatamente lucido, critico e bello sulla Cubanità e su che cosa Castro abbia lasciato alla sua isola. Mi sono andato a rileggere un estratto dell’intervista chilometrica (durata sedici ore) che Fidel concesse a Gianni Minà, incontestabilmente il massimo esperto italiano di politica e società sudamericane. Cuba, non c’è bisogno di andarci fisicamente per capirlo, è stata per più di cinquant’anni l’Isolachenoncè di quel sogno che sfioriva immediatamente ogniqualvolta si provasse a realizzarlo da qualche parte nel Mondo. Divenne dittatura feroce e affamata nell’Unione Sovietica di Stalin, distruzione di una cultura millenaria e dei suoi valori nella Cina di Mao Tse Tung, Medio Evo agricolo nella Cambogia di Pol Pot. L’unico posto in cui è sopravvissuto con ostinazione è stato l’isola caraibica. Almeno finora, perché due giorni fa Fidel, il Lider Maximo, il capo della Rivoluzione, se n’è andato. “Il Rivoluzionario che non ha perso la Rivoluzione” lo definisce Minà, concetto che ribadisce nell’intervista rilasciata per l’occasione ad Antonio Di Bella su RaiNews.
La figura di quest’uomo, ci piaccia o no eccezionale, è inscindibile dal suo compagno di guerriglia Ernesto Guevara detto “Che” per quel suo intercalare argentino con cui coloriva ogni conversazione. Il 2 dicembre prossimo fanno sessant’anni che sbarcarono, insieme ad altri ottanta guerriglieri, sulle spiagge di Cuba dopo una settimana di navigazione dal Messico. Si insediarono nella Sierra Maestra dove si addestrarono, ingrossarono le proprie fila, prestarono servizio medico ai campesinos conquistando le simpatie della popolazione fino a sferrare la loro offensiva su più fronti 25 mesi dopo, costringendo Batista alla fuga e dando inizio all’annoso dissidio con gli USA. Castro era il Leader indiscusso e carismatico, ma la battaglia decisiva fu condotta dal Che a Santa Clara dopo essersi distinto per il suo valore e l’abilità nell’addestramento e la disciplina infusa alla colonna da lui condotta. Quest’ultimo ricoprì diversi incarichi ministeriali, dando il suo impulso al nascente stato indipendente prima di spendersi nuovamente per la liberazione di altri popoli. Ci provò in Congo, a capo delle milizie cubane in una azione ufficiale di supporto alla rivoluzione, ma rimase deluso dalla sciatteria dei guerriglieri e dal fatto di non essere riuscito a stabilire una linea di comando stabile. Muovendosi in incognito, ricercato per ovvi motivi dalla CIA come dai servizi segreti di mezzo Sud America, arrivò in Bolivia in incognito insieme a un manipolo di fedelissimi con l’intenzione di accendere la miccia per una rivolta generale dell’America Latina. Sperava di ripetere l’esperienza cubana. Sbagliando però clamorosamente i`suoi conti.
Quei giorni a La Higuera. Perché il comunismo non é mai piaciuto alle masse
Ho avuto modo di soggiornare mio malgrado per un po’ di giorni a La Higuera, quel buco di villaggio sperduto dove il Che ha visto eseguire la sua condanna a morte tra le coline boliviane. Doveva essere una visita rapida di un pomeriggio ma una foratura su un sentiero polveroso mi ha bloccato per lunghe ore. Eh sì, non sono stato capace di riparare la camera d’aria senza distruggerla. In realtà ho fatto ancora meglio: sono riuscito a deformare il bordo del copertone rendendo la moto inguidabile. Mentre smadonnavo tra la polvere a quaranta gradi, qualcuno del posto passava a cavallo o a piedi o in fuoristrada senza fermarsi né tantomeno informarmi che a cento metri dopo la curva c’erano un paio di case i cui abitanti avrebbero potuto, se non aiutarmi, quanto meno offrirmi un po’ d’ombra. Gli unici a darmi una mano sono stati dei tedeschi in camper 4×4 attrezzati di tutto punto, che mi aiutarono a sistemare la gomma alla meno peggio e arrivare a La Higuera che ormai era buio pesto con la moto traballante. Lì trovai sistemazione nell’unico posto che accolga i numerosi turisti e pellegrini, la “Casa del Telegrafista”, gestito da una donna belga.
La Higuera è diventata meta di pellegrinaggio a causa della sua Escolita, la piccola scuola dove la CIA tolse di mezzo il suo spauracchio più grande con l’aiuto dell’Esercito e dei Servizi boliviani. La scuola, tappezzata di cimeli e testimonianze dei visitatori come fossero ex-voto, è sorvegliata da Melanio, l’unico a svolgere servizio di taxi nel villaggio. Sarà lui a portarmi a Vallegrande a recuperare una camera d’aria e una gomma cinese più piccola del previsto per poter lasciare quel posto e proseguire il mio viaggio. E portarmi lì fu una concessione strappata con lunghe preghiere, visto che erano in pieno svolgimento i festeggiamenti per la Virgen de Guadalupe, con il villaggio eccezionalmente affollato dalle famiglie locali che hanno fatto ritorno con prole per l’occasione. Sembrava che a nessuno interessasse lavorare: non interessava a Melanio avere qualche decina di dollari in più, non interessava alla ragazza dell’unica tienda nel villaggio riscaldarmi un piatto di riso. Tre giorni di musica e alcol a ciclo continuo, tra risse per futili motivi e cumbia ad oltranza, guance gonfie di foglie di coca per annullare l’effetto dell’alcol e poter bere sempre di più. Tre giorni da gringo in cui sono stato, per la gente del posto, nient’altro che un tipo strano da guardare con sospetto e diffidenza. C’erano altri viaggiatori che avevo incontrato al mausoleo del Che a Vallegrande: in particolare con Berta, giornalista di Barcellona, discutevamo sul senso della Rivoluzione e sul perché farla partire proprio da lì.
Ci ritrovammo con le braccia a terra quando, provando a parlarne con uomini del posto, ci accorgemmo dell’assoluta vacuità della retorica comunista con cui la mia amica argomentava. Del Che qui non fotte proprio niente: i murales, il museo della Escolita, le due grandi statue pacchiane che lo raffigurano sono lì per volontà del presidente Evo Morales , la cui retorica socialista lascia nei fatti il posto al rincoglionimento mentale di feste e santi patroni. Non c’è un senso di responsabilità della comunità neanche remoto né tanto meno a nessuno viene in mente di poterci campare con questa storia. Distacco totale. Mi fu chiaro subito che a questa gente niente importa dell’autodeterminazione e delle responsabilità che comporta, dell’appartenere a un movimento progressista e il conseguente confronto con altre realtà. C’è la musica, c’è l’alcol e la Virgen veglia su di noi: che ce frega del resto? Capii che poco era cambiato rispetto al 1967, quando Guevara venne venduto ai militari per un paio di pecore dalle stesse persone che voleva liberare, dopo che il partito comunista boliviano gli aveva ufficialmente voltato le spalle. Sono stronzi i boliviani? No di certo. Il fatto è che il socialismo richiede un’astrazione dagli istinti umani più forti, quelli su cui si basa invece il capitalismo. Il senso del possesso a discapito dell’altro, lo sfruttamento del più debole insiti nel sistema del Capitale sono molto più vicini alla parte animalesca dell’essere umano. Affinché un sistema sociale si prenda le sue responsabilità c’è bisogno di un grande sforzo da parte dei singoli, cosi come il concetto di bene comune in virtù del progresso. Troppo difficile immaginare qualcosa del genere quando non hai nulla.C’è chi dice che il capitalismo sia morto anche lui, ma a me sembra più vivo che mai.
Il Lider Maximo e il Cristo dei Guerriglieri
Secondo la storia il piano del Che era far espandere a macchia d’olio l’insurrezione partendo dal cuore geografico dell’America Latina. Una tattica debole, visto che essere al centro vuol dire essere letteralmente accerchiati ancor prima di iniziare. Ma il piano era fallace soprattutto dal punto di vista strategico: a Cuba la Rivoluzione ebbe successo perché guidata da un Cubano, Fidel Castro, che si era distinto in precedenza per la sua attività in un’isola che già aveva visto mescolanze di culture diverse. Allestire un campo d’addestramento nella giungla boliviana e sperare che dei contadini non istruiti e nullatenenti, incapaci di immaginare qualsiasi altro tipo di vita, si arruolino per un concetto a loro sconosciuto è a dir poco donchisciottesco. E infatti è finita male: catturato in un imboscata e tenuto prigioniero una notte, reso agonizzante da una raffica di mitra sparata da un soldato che, pare, abbia dovuto ubriacarsi a dovere per eseguire l’ordine. Il colpo di grazia al cuore arrivò dall’operativo della CIA Felix Rodriguez. Il Che venne ucciso rapidamente non solo per levarselo dalle palle, ma soprattutto per evitare un processo- evento difficile da gestire e per evitare complicazioni e richieste strane in tempi di Guerra Fredda.
Ma anche i suoi nemici sbagliarono i propri conti: Il corpo del Che, trasportato sul pattino di elicottero all’ospedale di Vallegrande, arrivò con gli occhi spalancati e più vivi che mai, con l’espressione di chi non ha paura di nulla. Volevano mostrarlo alla stampa per dimostrare quanto fossero cazzuti, ma diedero il via alle leggende di San Ernesto de La Higuera e El Cristo de Vallegrande. E chi conosce un po’ la devozione latinoamericana sa quanto questi culti attecchiscano. Viene quasi da pensare che lo scopo finale del Che sia stato proprio quello di diventare l’agnello sacrificale, la vittima che si immola come esempio alle generazioni presenti e future. Scelta o destino che sia, a noi interessa il fatto che la fine toccata a Guevara sia stata quella del martire tradito che accetta la sua sorte per il bene della causa, che se ne va portando con se le colpe dei nemici e assurge a vita eterna nel ricordo delle sue gesta e nella sua immagine sulle bandiere che sventolano. Se il Che è morto come il Cristo dei Rivoluzionari, Fidel ha avuto il ruolo che spettò a Pietro. L’immagine del primo rimase cristallizzata nel momento culmine dell’eroismo, all’altro toccò il vile compito di attuare politicamente il messaggio lasciato dal Profeta, di sporcarsi le mani per diffondere il verbo e farlo diventare legge, stato e società. Di invecchiare e morire alla guida del proprio Paese tra le magagne della Storia.
Il Grande Dittatore?
Castro ha condotto il Paese per quasi sessanta lunghi anni in cui il mondo ha cambiato faccia più volte, sopravvivendo a centinaia di attentati alla sua persona organizzati dai suoi nemici a stelle strisce. Nemici grandi e potenti piantati proprio di fronte a quest’isola bella e maledetta. Minà parla più volte della “sindrome da castello assediato” che ha caratterizzato il governo di Castro. E come dargli torto? Cinquanta e più anni di embargo totale pesano non poco: fin quando c’era il colosso sovietico esisteva un referente a cui potersi appoggiare. Crollato il Muro, iniziò l’isolamento totale. La società e lo stato cubano, ma soprattutto la sua identità andavano difese ad ogni costo, anche con l’autoritarismo.
Per noi occidentali (e storici membri del Patto Atlantico) è difficile pensare che istruzione, sanità, un pezzo di pane e un buco per dormire possano essere considerati sufficienti alla dignità della persona. Forse è poco anche per i cubani i quali però sanno, almeno i più anziani, che in gioco c’è la dignità di popolo, un popolo meticcio che per la prima volta sessant’anni fa ha potuto dire di essere uno e indivisibile. E possono andarne orgogliosi perché quella nazione l’hanno costruita insieme sparando prima, lavorando e stringendo la cinghia dopo. Uno stato senza elezioni é tecnicamente una dittatura, però è ben strana una dittatura che garantisce istruzione, cibo e sanità a tutti. È ben strano un dittatore che manda i suoi medici come volontari quando l’acerrimo nemico è colpito da una catastrofe, come accadde durante il terremoto a Los Angeles del 1994.
Gli anziani di Cuba sanno benissimo che nel momento in cui arriverà il bisogno indotto di consumare di più, finiranno le cure mediche e la scuola gratuita, che i cubani finiranno di essere cubani. Saranno come noi che ci diciamo orgogliosi della nostra cultura ma intanto ascoltiamo rock’n’roll, vestiamo da cowboy, usiamo termini inglesi per darci un aria internéscional. E anche loro mangeranno tre volte al giorno, faranno mutui trentennali e acquisteranno auto a rate per poi lamentarsi della crisi e sostenere che no, non possiamo permetterci di aiutare gli altri perché già stiamo male noi. Quanto durerà ancora è difficile dirlo, forse è già finito da un pezzo. Forse scoppieranno dissidi etnici, si ricreeranno disparità sociali che porteranno conflitti insanabili. Tutti fenomeni impensabili sotto la guida paternalistica di Castro.
Il mio non vuole essere un elogio alla dittatura, concetto che aborro come molti. Però vorrei far notare come, nel panorama delle dittature sudamericane, quella di Castro sia stata totalmente controcorrente essendo tesa all’autodeterminazione del proprio popolo e non all’asservimento alla grande potenza americana. Il Che ha infiammato i cuori, Fidel ha dato l’esempio politico alla nuova generazione di leader latinoamericani che, tra luci e ombre, sta cambiando le carte in tavola in quella parte di mondo. Una spina nel fianco dell’imperialismo statunitense, un nemico da eliminare insieme al suo esempio politico e umano, spendendo milioni di dollari all’anno in propaganda anticastrista e in azioni di sabotaggio e attentati. Un nemico così spaventoso che i circoli anticastristi vengono ben pasciuti e gli esuli hanno un bel ticket mensile e una corsia preferenziale per la cittadinanza. E dissidenti a libro paga come Yoani Sanchez sono impegnatissimi a fare conferenze in giro per il Mondo. Un nemico su cui concentrarsi ottusamente, lasciando stupidamente campo libero ad altri ben più temibili dal punto di vista economico. Come la Cina che pian pianino ha comprato aziende e debito pubblico di tutto il mondo, USA inclusi. Piuttosto che rompere il cazzo a dieci milioni di cubani, gli USA non facevano meglio a tenere d’occhio un miliardo e mezzo di cinesi? Ma l’America, si sa, non sempre sa scegliere i suoi nemici. Degli alleati non ne parliamo neanche.
Come andrá a finire?
Cosa resterà di Cuba lo vedremo. Vedremo cosa farà Raul, il fratello del Lider da sempre numero due del paese: vedremo se indirà elezioni, se stringerà accordi con la superpotenza. E soprattutto vedremo cosa faranno i cubani, se sapranno rimanere ancora se stessi, quelli poveri ma educati, o preferiranno la sciatteria del consumismo. Di certo c’è che ora Cuba non ha più il suo leader. Oltre al proprio Capo, il popolo cubano piange l’assenza di una figura forte, spaventato dall’incertezza di quello che verrà. Ma, almeno per ora, sembra essere compatto nella sua unità, rispondendo con fermezza al platinato Mr Trump che la lotta all’imperialismo andrà avanti. Se sia un messaggio di regime lo scopriremo a breve.
Tra un po’ sarà tempo di lavoro duro per gli storici che dovranno riportare la vita e le vicende di questa figura controversa e complessa. Si apriranno gli archivi, verranno fuori testimonianze e indiscrezioni. Sarà un processo lungo e faticoso ma necessario per tracciare una Storia verosimile del ventesimo secolo, che solo oggi possiamo dichiarare definitivamente concluso. Nutro seri timori sulle parti attive in questo processo perché, si sa, la Storia la scrive chi vince. Ed è davvero una beffa che l’ultimo rivoluzionario comunista sia morto proprio nel giorno del Black Friday, tripudio del capitalismo. Ma a prescindere da quelle che saranno le versioni ufficiali e apocrife spetta a tutti noi, che abbiamo a cuore la comprensione delle cose, avere un’idea sull’uomo e sugli eventi, pronti a sacrificare le nostre convinzioni e preconcetti per capire meglio il nostro tempo. E ora ricominciamo: Riuscirò ad andare a cuba prima che muoia anche Raul? Nel frattempo continuo a pensare, e ne sono sempre più convinto, che la dignità nulla ha a che vedere con quanto si ha in mano.