Dalla costa Ionica al cuore verde dell’Aspromonte, tra paesi fantasma divenuti luoghi della memoria e ció che resta della cultura grecanica. Il reportage, realizzato a piú riprese nel 2016, é stato pubblicato in Italia sulle pagine di Motociclismo, successivamente su Overland Magazine (UK), Roadtrip (FR) e Motorrad Magazin (AT). Negli Stati Uniti é stato pubblicato sul web magazine Upshift.
La Statale 106 divide le bianche spiagge dalle colline, inframezzate dai bianchi calanchi che fanno da preludio alla montagna vera e propria. Posto alla fine della spina dorsale della penisola, la regione è l’ultima periferia dell’Europa, il termine ultimo geografico ed economico del Vecchio Mondo.
La distanza geografica è all’origine di tutte le implicazioni storiche che hanno tenuto fuori la Calabria, e particolarmente l’area dell’Aspromonte, dal benessere che ha investito il resto della penisola.
Il progresso è arrivato, ma filtrato da un senso dell’abbandono e della precarietà delle cose che informa la creazione dei manufatti dell’uomo, dalle strade spesso dissestate alle abitazioni private mai terminate e con i tipici ferri di chiamata sulle solette, che raccontano dell’aspirazione di un ritorno alla terra natìa mai realizzato o, più prosaicamente, di un senso della cosa pubblica che termina con l’interno delle mura domestiche.
Cemento armato e mattoni forati, diffusi nel secondo dopoguerra come materiali da costruzione a basso costo, hanno informato anche i borghi dell’entroterra, abbarbicati a cocuzzoli atti a difendere le popolazioni dagli attacchi che funestavano le coste o che, più semplicemente, garantivano un buon soleggiamento.
Numerosi sono i piccoli centri che, isolati dalle vie di comunicazione principale già insufficienti, con l’arrivo della modernità sono stati evacuati per la fragilità del sistema idrogeologico su cui insistevano, con la popolazione trasferita — spesso con la forza — in località più prossime alla costa.
Il caso più eclatante è quello di Africo Nuovo, raggiungibile con non poche difficoltà attraverso una strada via via più sconnessa fino a diventare una pietraia di roccia dura. Percorsi a piedi gli ultimi cinquecento metri, si raggiunge un paese ormai invaso dai rovi e dall’atmosfera spettrale.
L’enorme edificio delle scuole elementari all’inizio dell’insediamento è l’unico a emergere dalla selva di spine insieme alla chiesa di San Leo, irraggiungibile per via della fitta vegetazione.
Fu Umberto Zanotti Bianco, fondatore di Italia Nostra, a portare in parlamento la questione della popolazione di Africo che, alla sua prima visita nel 1930, versava in condizioni inammissibili: si faceva il pane con cicerchie e lenticchie per mancanza di frumento, non c’era una scuola né un medico.
Suo malgrado, la denuncia di Zanotti Bianco gettò le basi per la speculazione edilizia avviata nel ’51 col pretesto dell’alluvione che danneggiò Africo e la frazione Casalnuovo. La dispersione forzata della popolazione in baraccopoli sparse tra Reggio, Gambarie e Bianco interruppe bruscamente secolari rapporti di comunità che, a dispetto della condizione di miseria, erano alla base di una forte identità.
La questione amministrativa si chiuse solo nel 1980, quando venne assegnato al comune di Africo una parte del territorio di Bianco. La situazione provocò l’incancrenirsi di problemi sociali e di ordine pubblico sfociati nella faida di Africo degli anni ’80.
Il borgo è un aggregato compatto di case in pietra miste a edifici in cemento armato le cui viuzze digradano verso la fiumara. Il racconto popolare vuole che le madri legassero i bambini davanti casa con corde di qualche metro, per evitare che cadessero nel dirupo.
L’atmosfera sospesa delle sue case decrepite e cantine popolate da oggetti d’uso quotidiano pare suggerire l’imminente ritorno dai campi di tutti gli abitanti, annunciata dal vento che fischia tra gli infissi divelti e il mobilio ancora al suo posto.
La chiesa del patrono, San Nicola, è stata restaurata alla buona: sull’altare essenziale non mancano i fiori dei devoti a ornare la croce fatta con semplici rami d’albero, a ricordare l’origine agropastorale del borgo.
Gallicianò, arroccato su un cocuzzolo che domina il profilo sinuoso dell’immensa fiumara dell’Amendolea, rimane abitato da poche decine di anziani e qualche pastore.
Qui il grecanico, il dialetto greco-bizantino usato correntemente fino al XVII secolo, è ancora parlato dai più anziani, sopravvissuto al XX secolo in cui veniva considerato la lingua dell’arretratezza, quasi un’ onta da cancellare. I nomi delle vie in greco, la minuscola chiesa ortodossa, il piccolo ma ricchissimo museo etnografico ne sono la sostanza fisica, ma la sua vera anima è ‘u sonu, la musica.
L’eccellenza dei suonatori di Gallicianò era ben nota anche fuori dalla provincia tanto che, ogni Natale fino agli anni ’50, una nutrita delegazione di zampognari partiva da qui per suonare a cospetto del Papa. Qui si imparava a suonare prim’ancora di parlare, tanto che i gaddhicianisi sono convinti che la loro sia una predisposizione genetica.
Gallicianò, come Roghudi e altri piccoli borghi spopolati, rivivono almeno una volta all’anno grazie al festival itinerante Paleariza, nato per salvaguardare la Radice Antica (questo il significato del nome) della cultura grecanica facendola incontrare con le culture popolari da tutto il mondo.
Il medium principale è la musica che anima di suoni e coreografie le piazze dei paesi fantasma: per una notte, le valli buie riecheggiano dei suoni che per secoli hanno accompagnato ogni momento della vita pubblica e privata di queste comunità isolate dal resto del mondo.
La Viddaneddha è scandita dai tamburelli, accompagnati unicamente da organetti, zampogne, pipite e ciarameddhe, coi suonatori posti in cerchio insieme ai danzatori.
Si balla in due per volta, non necessariamente uomo e donna, quando chiamati dal Mastru d’abballu: una persona influente della comunità (o il padrone di casa nelle feste domestiche) che stabilisce i turni dei danzatori in base a criteri di buon senso, evitando di mettere insieme persone divise da dissapori (Il fascismo dichiarò illegale la figura del Mastru d’abballu perché ritenuta espressione della cultura ndranghetista).
La coreutica differisce in base al sesso: gesti ampi e spavaldi per l’uomo, piccoli passi composti per la donna che non guarda mai negli occhi l’uomo, entrambi evitando il contatto fisico a meno di essere sposati
La fiumara dell’Amendolea assume a valle dimensioni importanti ma ha origine da una piccola sorgente nel cuore dell’Aspromonte: la cascata del Maesano si raggiunge dopo una camminata di circa mezz’ora tra i boschi su un sentiero ben segnalato e sorvegliato da mandrie di pigre vacche che osservano attentamente i viandanti.
Dopo una discesa leggermente impegnativa si arriva sotto la sorgente: fa impressione pensare che da quel piccolo specchio d’acqua nasce una fiumara cosí imponente da scavare la montagna che l’ha generato.
Se il fondovalle è arido e secco, altrettanto non si può dire del cuore della montagna, fresca e ombrosa. Da Ardore si percorre la strada per Ciminà fino a raggiungere la croce di Zervò, simbolo e memoria degli anni che furono.
Piantata in un crocicchio tra i castagni col suo Cristo coperto da una semplice tettoia, la croce finì sugli schermi di tutto il mondo nel 1989, quando Angela Casella vi si inginocchiò in preghiera chiedendo solidarietà alle donne calabresi per la liberazione di suo figlio Cesare, avvenuta a Natile due anni esatti dopo il sequestro a Pavia.
Il suo gesto eclatante, compiuto lì dove si pagavano i riscatti e si i sequestrati venivano rilasciati, fu decisivo nel porre fine all’industria dei rapimenti.