Di certo venticinque giorni non sono tanti per capire un paese, ma sono sufficienti a cogliere un minimo quali siano i principali problemi in Iran.
Che sia una bella terra popolata da gente più che ospitale ve l’ho già detto prima, sperticandomi in lodi esagerate come tutti i viaggiatori che hanno la fortuna di superare il blocco psicologico da Stato Canaglia e decidono di farsi un giro da queste parti.
Siccome non so da dove cominciare, inizio proprio dall’appellativo di Stato Canaglia, usato da George W. Bush per definire quello che per il governo americano è il nemico pubblico numero uno, associandolo nella comunicazione mediatica a soggetti meno potabili come Al-Qāʿida. Ce l’hanno propinato come uno stato di terroristi, governato da terroristi. Gente dedita all’applicazione di un libro perverso come il Corano, ottusi fanatici dell’Islam che vivono in un medioevo culturale senza possibilità di progresso. Intanto il Corano è un libro tutt’altro che perverso, piuttosto una interpretazione del Vecchio Testamento rivista e completata dalle istruzioni per l’uso della vita sociale, giuridica e politica. Basta poi farsi un giro di un paio d’ore nel primo bazar di una città a caso per convincersi che niente di tutto questo è vero.
Problemi in Iran. Il velo è solo un simbolo
E non parlo solo dell’ospitalità, ché quella anche uno che vive nell’arretratezza la può praticare. Parlo della voglia di modernità e di occidente, della spigliatezza nei discorsi, di una vita condotta laicamente pur sotto il giogo di uno stato che ha imposto la legge islamica, forse interpretandola a suo comodo. Dopo la rivoluzione negli anni ’70, che ha visto l’ascesa al potere del clero sciita, il progresso e la libertà in cui tanto si sperava non arrivarono. Lo Shāh di Persia aveva imposto dei limiti alle esternazioni di tipo religioso, tentando di imporre una laicità dello stato sulla falsa riga di Atatürk.
Il malcontento della popolazione più osservante venne cavalcato dagli ayatollah e, qualcuno sostiene, dagli americani (sempre loro, sempre per boicottare chi non vuole cedergli il petrolio) che fomentarono una rivoluzione partita da proteste sempre più frequenti. Pare che in quei giorni le donne scendessero in corteo coperte col chador, in segno di protesta al divieto di indossare veli nei luoghi pubblici. Cacciato lo Shāh, il popolo conobbe la vera faccia dei difensori del progresso: se prima di allora le donne ricoprivano ruoli importanti a andavano in bikini e minigonna, ora erano limitate nelle scelte e nei ruoli e costrette a coprirsi secondo i dettami del Profeta, vecchi di 1400 anni.
La cosa non riguarda solo il gentil sesso ma anche gli uomini: magari avranno la t-shirt, ma scordatevi di trovare un uomo in bermuda o in canottiera. Scordatevi, anche se maggiorenni, di trovare qualcuno che vi venda una birra, o una scena osé in televisione. scordatevi di corteggiare la compagna di banco, ché sono tutti maschietti. La divisione per sessi delle scuole, le donne coperte, le spiagge e i locali dove ci sono soltanto uomini sono cose che fanno male a entrambi i sessi.
Il popolo ha però imparato ad aggirare queste restrizioni: Le donne iraniane usano il velo come strumento di seduzione: un vedo non vedo che sono loro a controllare, abbinato al trucco e alla cura del viso. Qualcuna lo indossa su metà testa, qualcuna lascia uscire solo un ciuffo di capelli, tutte puntano agli occhi incorniciati da sopracciglia scolpite come elemento su cui far concentrare l’attenzione. Quasi tutte le donne a cui abbiamo chiesto cosa pensassero di quest’imposizione ci hanno messo un po’ di tempo prima di dire che effettivamente qualche volta ne farebbero a meno se non fosse imposto per legge.

Perché alla fine se ci sei nata e cresciuta diventa parte integrante del tuo abbigliamento e sai come farlo stare sempre lì: molte usano uno chignon come ancora per fermare l’ḥijāb e non si muove manco in caso di terremoto. Di base è una di quelle cose da accettare perché funzioni. Cosa che Peppina non è riuscita a fare, odiando l’imposizione in se e cambiando più volte il modo di portarlo con risultati spesso pessimi. Di fatto è stata l’unica donna a lamentarsi sistematicamente del proprio velo: le altre turiste incontrate non sembravano minimamente patire della loro copertura, decisamente contente della loro nuova immagine mediorientale, e soddisfatte di poter giocare per qualche giorno a sentirsi come Mata Hari. Peppina invece ha passato 25 giorni di merda, guardando di traverso quelle donne che, pur coperte, emanavano sensualità e intrigo.

Ne ha fatto una questione personale, come se venti giorni di transito nella legge assurda di un paese fosse una condanna a vita. E, come sempre, se una cosa non la accetti diventa una tortura: invece di attrezzarsi con una blusa o una camicia che coprisse braccia e fondoschiena, si è ostinata a indossare sulla t-shirt un vestitino smanicato e sopra ancora una maglia leggera per coprire le braccia. E tutto questo oltre a paraschiena e abbigliamento tecnico. Avrà anche risolto il suo desiderio di non omologazione, ma ha patito il caldo come nessun’altra donna nel raggio di duemila chilometri.
Pensate quello che volete, ma a mio avviso l’ḥijāb è ne più ne meno che l’equivalente femminile di giacca e cravatta per i businessmen o gli impiegati occidentali: una divisa imposta senza la quale sei fuori dal gruppo e non meriti rispetto. My Stealthy Freedom è una bella iniziativa ma non risolve nulla se non lo sfogo momentaneo di donne che per un attimo possono sentirsi romantiche paladine della libertà di genere. Ma immaginate una pagina facebook in cui bancari e funzionari agitano le loro cravatte al vento, liberi dal giogo dell’immagine (co)ordinata? O i controllori dell’autobus che bruciano la giacca in piazza per la libertà di essere se stessi anche sul lavoro? Non risolverebbero nulla come non risolve nulla la pagina della giornalista iraniana trapiantata in Inghilterra, oggetto di continue minacce.

Alle donne che vorrebbero rispondermi di metterlo io il velo, direi che sì, lo metterei eccome: d’estate per ripararmi dal sole, d’inverno per ripararmi dal freddo. Che capelli non ne ho e mi piacerebbe vestirmi sempre da Minchia del Deserto ed emanare un’aura esotica senza essere preso per il culo. Il velo non posso metterlo per ovvi motivi, mentre avrei dovuto indossare qualche cravatta in passato per dire che anch’io faccio parte del gruppo e sono degno di attenzione. Non l’ho fatto e, forse, pago anche questo a quarant’anni suonati. Ma l’ho fatto per una mia libera scelta. In Iran non si può scegliere.
Lo dice la costituzione, ed è questo il vero problema. Per tutti e non solo per le donne costrette al velo. Credente o meno lo devi indossare. Anche quando sei all’ombra e ci sono 50 gradi. E questo proprio non va bene. Per questi motivi l’obbligo del velo è un simbolo forte delle contraddizioni iraniane. È il simbolo del divieto imposto e aggirato per sopravvivere. Ma è davvero l’ultimo dei cazzi di questo paese. Più grave è che le donne non possano guidare moto per legge. O che le scuole siano separate per sesso, così come le spiagge, dove possono andare solo completamente coperte e sempre separate dagli uomini. La stessa legge che prevede pene severissime per entrambi i sessi in caso di reato e repressioni violente delle proteste. E come in tutte le società basate su una religione monoteista (sì, anche la nostra) tutto questo ricade maggiormente sul corpo delle donne. E il velo è solo la parte più visibile e meno grave della questione.
Le contraddizioni dello Stato-canaglia
La prima sera che uscimmo a Urmia, Hossein ci portò a mangiare economico. Avremmo preferito cibo locale ma mangiammo un ottimo hamburger, prodotto secondo i dettami ḥalāl, e fin qui tutto ok. Ci rimasi male quando, diretto al banco frigo, trovai Coca Cola invece del beveraggio locale preso un paio di giorni prima per strada. Era quella vera, con tanto di bollo original sull’etichetta, che portano tutti i brand multinazionali per proteggersi dall’assenza di tutela del copyright in questo paese. Hossein, sorridendo con la faccia di chi la sa lunga, disse che sì: c’è quella, c’è la Pepsi e tutti i marchi collegati a queste ditte. Mi aspettavo che nello Stato Canaglia per definizione non si trovassero tracce di America se non sottobanco, invece sono ovunque. Il denaro può tutto, più della propaganda. Ché mica si può lasciar scappare così un mercato di settanta milioni di persone che per legge non possono bere alcool.
Ecco, l’alcol è l’altro grande divieto assoluto, aggirato con un sistema semplice quanto efficace: si fa in casa. Attenzione però: nessuno pigia uva o produce birra. Semplicemente si rende alcoolico ciò che alcolico non è. Per la birra si compra quella non alcolica e si aggiunge lievito e zucchero, lasciandola ferma e al fresco per tre o quattro giorni. Dopo questo tempo ci si ritrova con una bottiglia di birra weiss, non filtrata e dalla gradazione ignota. Qualcosa di simile si fa col vino dal succo d’uva ma con risultati non soddisfacenti. E viene un discreto magone a pensare che in questa terra una delle eccellenze era il vino. Ora rimane dell’ottima uva e niente più, che comunque non è poco.
Un altra cosa che lascia spiazzati è l’accesso a internet e ai canali d’informazione. La rete è lenta e poco diffusa e se si prova ad entrare sui siti d’informazione, così come sui social network o uno qualsiasi dei canali google, apparirà la schermata di non so quale agenzia governativa ad avvisare che il contenuto non è disponibile. Ovviamente in Farsi. Fin qui ci sta: è una dittatura, è normale che l’accesso sia limitato. Fa rimanere sconcertati il fatto che quasi tutti invece usino questi canali attraverso semplici tunnel VPN reperibili ovunque. Per il laptop l’ho acquistato a cinque euro in un negozio di software pirata nel bazar dell’elettronica, un pipitone di galleria commerciale a tre piani interamente dedicata a questo settore. Per il telefono invece mi è stata gentilmente regalata dal service che mi ha venduto un S3 di seconda mano dopo aver decretato la morte del precedente dispositivo. Quindi di fatto l’unico problema è la qualità della rete, in alcuni casi davvero pessima.
Ok, almeno sulle carte di credito saranno inflessibili, pensavo. Eh, cazzarola: il capitalismo americano di Visa e MasterCard non può entrare impunemente nella roccaforte della lotta all’imperialismo anglofono. E invece sì, anche se per una categoria che a noi non interessa. A Eṣfahān vediamo su un paio di negozi di tappeti e chincaglieria varia i logo dei circuiti internazionali. Il tappetaro, conosciuto il giorno prima in una caffetteria (dove abbiamo bevuto l’unico espresso da un mese a questa parte) ci spiega che il suo negozio è una società registrata a Dubai e per questo non sottoposto a restrizioni. Basta questo per aggirare la messa al bando delle carte magiche con cui paghi tutto tranne le soddisfazioni, che non hanno prezzo.
Viene da pensare che l’Iran sia sottoposto a una dittatura bananesca e ridicola per quanto sia facile aggirare le restrizioni imposte. Oppure che se è così facile bucare la rete, non debba essere così difficile rovesciare un governo che non sa neanche vietare per davvero l’uso di una carta di credito.
In realtà Rouhani & Co. non sono così stupidi come sembra. Innanzitutto non è da escludere che dietro ai server su cui si collegano gli utenti per eludere i blocchi ci siano gli stessi servizi iraniani. Non sono un esperto d’informatica, ma credo che per quanto privata sia la rete virtuale, ci sia comunque la possibilità di risalire all’utente. Se così non fosse rimane comunque uno strumento utile in caso di pulizia delle opposizioni: ti becco in piazza a protestare o so che stai organizzando una protesta? Bene, dico che ti ho sgamato facebook sul computer, o che ti ho trovato con dieci bottiglie di birra in casa e ti metto dentro. Oppure ti metto dentro con la scusa di averti trovato un qualsiasi tipo di musica diverso da quella tradizionale. Strumenti da usare insieme alla buona vecchia repressione poliziesca fatta di manganellate, pistolate e sparizioni in caserma.
Penso a tutte queste cose mentre percorriamo in silenzio strade ben asfaltate ma spopolate che attraversano un altipiano desertico in cui, a ottobre, si schiatta di caldo anche a quota 2.500. Montagne alte contornate da tornanti, intervallate da pianure sconfinate sui cui rettilinei si corre veloci. Verso città storiche soffocate dal traffico, separate dal nulla disseminato di villaggi di fango, dove la gente ti porta in giardino per regalarti una busta di melograni da mangiare per strada.
-“Yours is a beautiful country!”
-“Yes it is. But it’s dry, very dry!”
Il dialogo con un tipo incontrato per strada, davanti a un campo coltivato a non so che e contornato dall’aridità, svela il suo rammarico per una terra bella che soffre di qualcosa di non meglio definito.

E forse la più grande delle contraddizioni in Iran è la ricchezza confinata all’autarchia. Questo è un paese ricco, o quantomeno non povero. Gli standard di vita sono nella media europea, se non fosse per l’ostinazione a usare cessi alla turca che si intasano al primo foglio di carta igienica. Ma questa ricchezza vale solo dentro i confini. Fuori il mondo ha decretato un embargo e un boicottaggio spietato.
Tutti vorrebbero venire in Europa, molti vorrebbero viaggiare per il mondo, tanti vorrebbero studiare in America. Ma il Rial non vale una mazza fuori dall’Iran. E anche se hai tanto denaro da fare un viaggio all’estero, non è detto che ti concedano un visto. E se casomai ottieni il visto e parti, devi passare metà del tuo tempo a dimostrare che non sei in viaggio all’estero per farti esplodere in metropolitana.
Quello che mi viene da pensare alla fine di questi giorni iraniani è che la situazione di questo paese è esemplare per quello che può succedere quando si tenta di cambiare un ordine costituito affidandosi ai capipopolo sbagliati. Pensi che peggio di così non possa andare, poi ti accorgi che al peggio non c’è mai fine.
E questo vizietto in Italia ce l’abbiamo ben radicato.
L’Ayatollah Khomeini per molti è santità, abbocchi sempre all’amo
Le barricate in piazza le fai per conto della borghesia che crea falsi miti di progresso