Da Bangkok non riusciamo a partire prima di mezzogiorno nonostante la voglia che avevamo di rimetterci in strada. La spedizione di Sofia e la sua manutenzione forzata ci hanno tenuti fermi per quasi due settimane tra Kathmandu e Bangkok, col risultato che quasi stavamo per prenderci a mozziconi per il caldo e la noia. E stavolta c’era anche un buon motivo per alzarsi presto e partire di buon’ora per andare in direzione nord-ovest. Andare a visitare il centro Children of the Forest a Sangkhla Buri, uno dei posti di frontiera con la Birmania, o Myanmar se preferite.
Ma siamo fatti cosi, e anche col pepe al culo non riusciamo a muoverci presto come dovremmo. Ma alla fine salutiamo la cinofila della guesthouse, gli arianissimi e anglofoni dirimpettai e cerchiamo di uscire da Bangkok, così razionale nei suoi allineamenti di strade e cavalcavia da farmi sbagliare direzione almeno due volte nonostante il GPS.
Anche in questo siamo bravi assai.
Verso il confine col Myanmar per incontrare i rifugiati birmani
Sarà stata la voglia di andare e le strade thailandesi lisce come un biliardo, ma riusciamo a farci questi duecentocinquanta chilometri come una scheggia. Una volta lasciata la statale a quattro corsie che corre in pianura, attrezzata di qualsiasi cosa la civiltà richieda, iniziamo ad arrampicarci su una strada sempre più tortuosa e stretta, ma dal manto sempre impeccabile, lungo la quale realizzo per la prima volta il significato di “vegetazione lussureggiante”.
La Thailandia non è un paese povero, o almeno così ci sembra di capire attraversando città e villaggi, semplici ma dignitosi, in cui non si respira nel modo più assoluto l’aria da golpe militare che si dovrebbe avvertire, visto che l’ultimo è stato nel maggio 2014 ed è ancora in vigore la legge marziale.
Ad accoglierci all’inizio di Sangkhla Buri ci sono le statue di Buddha poste in serie nelle sue pose classiche, una cosa che in Thailandia si porta molto. Come si porta molto l’adorazione del Re, la cui immagine campeggia in ogni casa, esercizio commerciale o ufficio pubblico. Per noi che siamo qui a Febbraio la più ricorrente è quella del calendario di una banca che ritrae il sovrano mentre parla a un walkie talkie con la reflex appesa al collo. Lo sfondo sfocato lascia intendere uno scenario di natura selvaggia, in netto contrasto col cappotto beige indossato dal soggetto. Qui al confine, insieme alle tante che lo ritraggono insieme alla consorte, troviamo invece una rara immagine del monarca che suona un clarinetto: un Re poliedrico oltre ogni aspettativa.
La guest house in cui Tom ha prenotato per noi è una fantastica struttura interamente in legno con vista sul lago al costo di otto euro a notte. Monteremmo la tenda in giardino, ma visto che il prezzo sarebbe uguale accettiamo l’idea di un’ albergo vero dopo i dieci giorni nella topaia della capitale. Speravamo di poter essere ospitati nel centro ma l’opzione non è stata neanche presa in considerazione dai responsabili, vista la policy di tutela dei bambini che sul momento non riesco a capire e che mi verrà spiegata dallo stesso Tom appena ci incontriamo, poco dopo il nostro arrivo, mentre sul suo pick-up ci accompagn,a insieme alla moglie Lynda, a prendere qualcosa da mangiare al mercato ormai in chiusura.
L’origine del problema
L’indomani, la vista al risveglio è eccezionale: un placido lago circondato da colline, sulla più alta delle quali svetta la cupola dorata di un tempio buddista mentre, sulla destra, sonnecchia il villaggio di case in legno unito alla parte nuova della città da un ponte anch’esso in legno. Sotto quest’ultimo un nucleo denso di case galleggianti.
Davanti a questo paesaggio idilliaco Tom ci spiega il lavoro del centro, fondato dal figlio una decina d’anni fa per dare sostegno e aiuto ai figli dei rifugiati birmani di etnia Mon e Karen che, non ricevendo la cittadinanza alla nascita, non godono di alcun diritto nel Paese. La questione ha avuto inizio nel 1948 quando alla dichiarazione d’indipendenza della Birmania, con gli inglesi che andavano a casa, le diverse minoranze etniche sparse per il paese iniziarono a rivendicare autonomia territoriale e politica.
Il circolo vizioso dello status di rifugiato
Lo fecero in maniera decisa e la risposta del governo lo fu ancora di più: la dittatura militare insediatasi dopo l’assassinio di Aung San, padre della celeberrima Suu Kyi, represse nel sangue le richieste delle etnie radendo al suolo interi villaggi e dando inizio alla fuga di massa nella vicina Thailandia, la quale riconobbe ai fuggitivi lo status di rifugiato ma non il diritto di cittadinanza, continuando su questa linea anche con le successive generazioni. Non essendo previsto lo Ius Soli, al momento esiste una buona fetta di popolazione che non ha nessun diritto garantito dallo stato.
E questo crea un circolo vizioso: se non hai cittadinanza non puoi andare a scuola, le cure mediche sono troppo care, non hai diritto a un lavoro regolare e per tutti questi motivi non hai soldi né accesso al credito. Se non hai soldi non puoi pagare la cittadinanza, la scuola, l’ospedale. E sei una pedina in mano agli strozzini o ai caporali che fanno fortuna con la tratta di esseri umani.
Una situazione tipica è quando qualcuno in famiglia si ammala e il capofamiglia, non potendo onorare il debito contratto con lo strozzino di turno, si ritrova con la proposta di andare a lavorare a Bangkok o in un’altra grande città con l’impegno di dare al caporale una parte cospicua del salario. Quando ciò si verifica davvero è la migliore delle ipotesi, visto che di solito il malcapitato non vedrà mai una lira, costretto alla schiavitù senza possibilità di uscita, in assenza di un diritto che lo tuteli. Altre volte il pegno da pagare è una figlia, magari carina e in età adolescenziale, a cui viene promesso un lavoro come governante o donna delle pulizie in città. Il più delle volte queste figliole finiscono nel racket della prostituzione e a casa non se ne sa più nulla.
Lavorare sul territorio
E così, ancora rincoglionito dal poco sonno, nell’aria ancora fresca di un mattino qualunque e davanti a un paesaggio così bello da sembrare finto, Tom mi spara in faccia quella realtà a cui ormai è assuefatto dopo anni: il lato oscuro di questo paese che sembra una terra promessa, ma che vive anche sulla manodopera a costo zero e sulle donnine da torchiare nell’industria del sesso.

Parte del lavoro del centro è anche quello di andare per villaggi facendo informazione su come riconoscere questi soggetti e quali siano le altre vie possibili. E loro sono una di quelle vie. Negli anni sono riusciti a mettere su un ambulatorio e una casa per le donne in difficoltà. Cercano di aiutare tutti in ogni modo possibile ma l’obiettivo principale rimangono quei bambini nati in Thailandia senza il diritto a esserne cittadini attivi. Il loro lavoro consiste nel prepararli all’idoneità per l’ammissione alle scuole thailandesi, cercando di portarli fino al diploma o alla laurea con l’obiettivo di fargli ottenere la cittadinanza.
-”E ai bambini va di andare a scuola? Te lo chiedo perché non è che i bambini europei impazziscano all’idea….”
-”Sì! A loro piace: si divertono e c’è da mangiare. E sanno che l’alternativa è il lavoro nei campi o nelle piantagioni di gum tree. Quindi meglio la scuola!”
L’albero della gomma! Mi viene subito da pensare alle gomme appena montate su Sofia e pagate un occhio della testa. E penso che la cifra incassata da chi raccoglie la materia prima forse basta a comprare il tappo della camera d’aria.
Children of the Forest
Il centro è nel pieno della giungla densa di palme e splendente di un verde abbagliante. Dalle aule, piccole casette in legno e bambù, arrivano le voci dei bambini che ripetono a cantilena le parole in thai pronunciate dall’insegnante. Sbirciamo in una classe in cui gli alunni sono intenti a fare compito. Visitiamo le cucine, la grande casa dove vivono i più piccoli, accuditi da insegnanti che dormono nello stesso stabile.
C’è un centro per le donne in difficoltà, rimaste vedove o abbandonate dagli uomini o i cui mariti sono in qualche modo spariti. Sulla soglia dell’ambulatorio, la dottoressa di etnia Mon, ci spiega che stanno con loro fin quando il supporto psicologico non le ha preparate ad affrontare il mondo. Possono volerci pochi mesi o anni. In pianta stabile ci vivono solo due di assistite: una ha perso la vista, l’altra è mutilata e coperta da gravi ustioni in seguito a qualcosa per cui chiedere mi sembra abbastanza fuori luogo. Il centro è ben tenuto e curato dai manutentori che vi lavorano ogni giorno, riparando e rattoppando le capanne in bambù che per definizione richiedono lavoro continuo. C’è un recinto con una decina di pannelli fotovoltaici, dono di una società di Bangkok. C’è l’impianto di potabilizzazione dell’acqua per osmosi inversa.
La tutela emotiva
L’impressione è che tutti i soldi che arrivano vengano ben spesi per il centro stesso e per la ventina di persone che ci lavorano. Children of the Forest non accetta volontari esterni nelle sue strutture per la sua politica di protezione dei bambini: i volontari esterni si fermano al massimo un paio di mesi creando un rapporto di affetto con i bambini e, al momento della partenza, farebbero rivivere a molti di loro lo shock di un distacco forzato e doloroso. È questo il motivo per cui neanche noi, di passaggio per due giorni, abbiamo potuto dormire nel centro.
Ripassiamo davanti alle aule mentre suona la ricreazione e, nel giro di una frazione di secondo, veniamo assaliti da un gruppo di bambini ansiosi di fare caciara. Stanno tutti in fissa col Muay Thai, si imperticano alla tracolla della mia fotocamera, mi abbracciano mentre gli faccio rivedere le foto appena scattate. Mentre cerco di salvare la fotocamera e me stesso da quest’orda di scimmiette festose, Peppina ha la botta di magone definitiva per quello che sarebbe il suo lavoro dei sogni.
Quando l’uomo bianco arriva per non distruggere
E’ un lavoro complesso, da svolgere con dedizione e attenzione. Tom ci racconta che il loro rapporto con le autorità è ottimo e di piena collaborazione, ma bisogna mantenere sempre un profilo basso. Com’è facile immaginare, gli inglesi venuti a mettere il naso nelle questioni locali si tirerebbero la zappa sui piedi se alzassero la voce o imponessero un punto di vista sgradito, dovendo fare i conti con il razzismo neanche tanto strisciante della popolazione e i modi spesso poco ortodossi della polizia che su queste strade ha installato decine di checkpoint per controllare i movimenti dei rifugiati birmani e della loro progenie, a cui è consentito spostarsi solo per recarsi al lavoro o a scuola.
Mentre dice questo, l’elicottero della polizia che sorvola la zona passa sulle nostre teste per l’ennesima volta in poche ore e io mi ritrovo a pensare che fortuna sia essere nati in un paese del Patto Atlantico, avere un passaporto che permetta di andare ovunque e una cittadinanza che ti garantisca la possibilità di scegliere cosa fare della tua vita. Non dev’essere proprio una gran cosa nascere in un posto e non esserne considerato cittadino dalle autorità. “Questi ragazzi si sentono Thailandesi, vogliono contribuire a questa società. Vogliono diventare infermieri, meccanici, avvocati. Gli insegniamo il thai, ma anche le loro lingue madri. Li facciamo impegnare in spettacoli nei loro abiti tradizionali perché non dimentichino le loro origini.”
Tom e Linda, un’altra vita altrove
La visita al centro è stata rapida, ma passeremo ancora del tempo con Tom e Lynda, chiacchierando di noi e di loro, delle rispettive scelte e di quella terra ormai uniformata negli atteggiamenti che è l’Europa. Quello con loro è stato uno di quegli incontri che fanno bene oltre che sperare in una vecchiaia lontana dalle magagne della vita occidentale. Un bel giorno hanno deciso di vendere la casa, mollare tutto e raggiungere il figlio per dargli una mano, diventando di fatto gli unici volontari in pianta stabile di Children of the Forest. Hanno invitato gli amici a casa dicendogli di portare via qualunque cosa gli servisse in cambio di una donazione al centro. L’unica cosa che non hanno dato via è la TV, che usano per guardare le partite di calcio insieme ai bambini della scuola.
A Sangkhla Buri ci fermeremo in tutto due giorni a perdere un po’ di tempo guardando il tramonto sul fiume, visitando il tempio di Wat Wang, un bagno in un ruscello sulla strada per il confine birmano delle tre pagode, abbastanza deludente in realtà. Una piccola cittadina di frontiera, abitata da una comunità mista di thai, mon e karen riconoscibili dal viso coperto di thanaka, una polvere protettiva che molti usano anche come semplice cosmetico.
Andiamo via rifacendo la stessa strada fino a Tong Pha Phum, diretti a Mae Sot presso un altro centro sostenuto dalla Fondazione Mission Bambini. Ci metteremo qualche giorno, perdendoci tra piantagioni di banani, sbagliando strada, prendendo traghetti e facendo wild camping in riva a un lago.
Tutti ricambiano i nostri sorrisi, tutti sono gentili. Non sembra neanche questo il paese della tratta di esseri umani di cui parlava Tom.