Qual è il lavoro più bello del Mondo per un motociclista? Dipende: se ti piace correre, sicuramente il pilota. Se ti senti svilito a guidare sempre la stessa moto, il tester è sicuramente quello che fa per te. Ovviamente se il tuo chiodo fisso sono i viaggi, non puoi che sognare un lavoro di accompagnatore. Pur essendo tra le cose più plausibili da tentare dopo essere tornato dal Giro Lungo, scartai in un primo tempo l’ipotesi, pensando di non essere tagliato per questo lavoro a causa della mia fricchettoneria. Mi sembrava una responsabilità troppo grande quella di essere alla testa di un gruppo, soprattutto considerata la mia indole ritardataria e quella propensione (genetica, ormai ne sono convinto) alla sosta caffè/sigaretta/panorama/foto.
Ma che é ‘sto Tour Leader? Portare gruppi in moto
Poi però mi sono detto che se gli altri potevano farlo, perché io no? In fondo avevo già avuto la prova altre volte che, se vuoi, una cosa la fai. Quindi, oltre a mandare qualche richiesta scritta a un paio di tour operator, ho sparso la voce tra amici e conoscenti che si occupano di queste cose a vario titolo. Un giorno di giugno mi arriva la proposta di accompagnare un tour in Europa dell’Est per conto di VEDETT® ///// MOTOTOURS, un operatore che negli ultimi anni ha lavorato molto con il mototurismo da e per il Sud Est Asiatico. Parlando al telefono con Franco, il titolare, si è subito instaurato un clima di collaborazione tranquilla e senza stress grazie all’approccio operativo e professionale di entrambi.
Franco aveva seguito il mio viaggio e questo rendeva le cose più facili, nel senso che non avevo da dimostrare nulla riguardo alle mie capacità di gestione di percorsi e risoluzione di imprevisti. Si trattava di fare il Tour Leader (ho scoperto che si dice così) per un gruppo di cinque indonesiani dal 10 al 22 settembre, l’ultimo periodo utile prima delle piogge e del freddo mitteleuropeo. Duemiladuecento chilometri su asfalto con partenza e arrivo a Berlino, passando per Polonia, Slovacchia, Ungheria, Austria, Repubblica Ceca. Sistemazione in hotel 4 stelle, percorrenza media di 400 km al giorno. E che fai, gli dici di no?
Il lavoro piú bello del Mondo. Da grande faró il Tour Leader!
Detta così la cosa non è affatto complicata, soprattutto per chi è avvezzo alla guida su lunghe distanze. Tanto che mi ero sempre chiesto cosa mai spinga la gente a pagare qualcuno per farsi aprire la strada togliendosi il gusto della scoperta e dell’esplorazione. Secondo gli accordi le mie mansioni, oltre all’apripista, riguardavano i rapporti con le reception degli hotel, scandire i tempi delle soste trovando i posti giusti dove fermarsi e consumare i pasti: in sostanza essere l’interfaccia tra queste persone e un continente a loro sconosciuto.
Arrivato a Berlino e radunati i partecipanti, tutti amici tra di loro, ci siamo diretti al Best Western di Steiglitz, un 4 stelle di tutto rispetto dove però, colpo di scena, l’assenza di aria condizionata ha seminato il panico tra i partecipanti. Ed è anche comprensibile visto il loro clima di provenienza. Uno in particolare ha persino dichiarato che senza aria condizionata era per lui impossibile dormire, spingendosi addirittura a chiedere il cambio della camera. Il calare del sole e l’arrivo del freschetto settembrino ha fugato però ogni timore. Sono bastate poco più di ventiquattr’ore a farmi capire la mia funzione in maniera esaustiva, ma solo più avanti mi accorgerò dell’importanza di questo lavoro.
Il commando calabro-indonesiano
Lo dico subito: è sicuramente il lavoro più bello del Mondo ma non è per tutti. La cosa assolutamente necessaria, prima che il manico motociclistico e il culo d’acciaio, è una buona dose di pazienza, flessibilità e apertura mentale. I partecipanti erano tutta gente tranquilla della Jakarta bene: Arystia, il capogruppo sulla quarantina, lavora in uno studio notarile importante mentre Rahmat (60) e suo figlio Ritzky (23) sono i piú grossi commercianti di pelletteria della nazione. Puguh, 42 anni, lavorava nella comunicazione prima di diventare l’assistente personale di Ary, 47 anni, il più carismatico del gruppo, quello con cui ho scherzato e chiacchierato di più e con il quale mi sono trovato a scontrarmi un paio di volte, anche se educatamente.
Ce lo siamo detti un paio di volte: visti da fuori sembriamo un commando misto ‘Ndrangheta/Isis in missione poco segreta. Qualcuno ogni tanto ci guarda strano ma tutto sommato è una bella sensazione quella di far parte di questo strano circo.

L’inizio è stato incerto anche a causa della guida a destra, per loro abituati a stare sulla sinistra. Ma la cosa più importante, che vengo a sapere nei giorni successivi, è che loro non sono abituati a guidare nel traffico, essendo soliti mettere le moto sul carrello e andare fuori città per gitarelle di una cinquantina di chilometri. Capisco solo allora perché Rahmat continua a ringraziarmi ad ogni sosta per l’esperienza che gli sto facendo vivere. Essendo lui il più anziano del gruppo (e a volte il più impacciato) ho impostato la velocità di crociera su di lui e devo dire che è stato il più ligio di tutti nel tenere la posizione.
La routine necessaria
La giornata iniziava sempre allo stesso modo, con un briefing in cui descrivevo la giornata che stavamo per affrontare, le frontiere, i salti di quota e il tipo di paesaggio. Al briefing seguiva la preghiera in cui si chiedeva ad Allah di farci arrivare sani e salvi a destinazione e di proteggere i nostri amici e familiari. Partecipavo al rito (che Ary recitava in Indonesiano e Inglese per far capire anche me) non per una mia repentina conversione, ma perché è un modo per fare gruppo molto più efficace dello stesso briefing, le cui indicazioni vengono ignorate appena ingranata la seconda, alla stregua dei tempi che inutilmente tentavo di dettare o la formazione da tenere e la distanza di sicurezza.
Concetti totalmente ignorati nei primi giorni ma assimilati man mano e diventati bibbia dopo che Ritzky (un fuscello ancora più secco di me) è riuscito a fare 2.500 euro di danni alla GS 1200 che guidava, incrasciandosi con Ary dalle parti di Budapest dopo una serie fortunata di semafori verdi che abbiamo attraversato spediti. Al primo giallo, in cui mi fermo dopo un attimo di incertezza per non perderli, nonostante si fossero ingarellati riescono a fermarsi tutti tranne il ragazzino, che entra a missile nella valigia destra di Ary.
Nessuno si fa male, baci e abbracci ma le potenti motociclette bavaresi riportano graffi che il noleggiatore non può perdonare: il becco rotto (ma a che minchia serve ‘sto becco se non a rompersi?) insieme al parafango, paramani e paracilindri graffiati. Ho fatto notare che forse una mucca di quelle dimensioni non è adatta a un ventitreenne di 50 chili, ma per tutta risposta mi dicono “Eh, ma lui in Indonesia guida una Harley!”.
Appunto: quando dico che le moto sono come le mutande e devono essere della giusta taglia, so di cosa parlo: il denaro può comprare (o noleggiare) la moto più bella e potente, ma non la capacità di guidarla. Per quella ci vuole pratica ed esperienza. E anche il fisico, in una certa misura. Anche se di problemi veri non ce ne sono stati, alcune situazioni sono state al limite del comico a causa della stazza dei veicoli: a parte Puguh che guidava una Triumph Tiger 1200 e Rahmat su BMW RT1200, gli altri stavano su BMW R1200GS Adventure.
Ora, si sa che gli indonesiani non hanno proprio corporatura da vichinghi: tante volte dovevano aiutarsi, o li aiutavo, a togliere il cavalletto. Oppure si spingevano a vicenda per fare le manovre di parcheggio. I problemi più grandi li ha avuti Rahmat che, nonostante la sella ribassata, proprio non toccava a terra se non con la punta di un solo piede. Per me era stata noleggiata una BMW F700GS e sono stato felicissimo della scelta di Franco: mentre tutti erano impacciati io avevo un mezzo leggerissimo e agile che mi permetteva di svolgere in scioltezza il mio lavoro senza accusare troppa stanchezza.
I gadget sono divertenti ma fanno perdere tempo
Mi sorprendo della mia precisione: ho studiato il mio bagaglio sullo stretto indispensabile, la mia moto è priva di gadget con cui giocare e la sequenza GPS/giacca/casco/guanti/accensione va da sé in automatico. Stare un anno intero in viaggio aiuta a capire cosa davvero sia importante, oltre a installare degli automatismi mentali che rendono le partenze più snelle.
Per loro, non abituati alla guida quotidiana, e smaniosi di giocherellare coi loro costosi gadget da motoviaggiatore, è un continuo togli e metti: si vestono, mettono i guanti dito per dito, poi li tolgono per levare l’imbottitura della giacca, poi li rimettono e si tolgono il casco per sistemare il sottocasco, poi si tolgono di nuovo il casco per accendere l’interfono di cui non trovano il tasto e allora vanno da un altro a farsi aiutare mentre un altro ancora finisce di aprire e chiudere le valigie per prendere o riporvi solo Dio sa cosa.
Più di una volta ho spento la moto e acceso due sigarette di fila in attesa che terminassero. E tutto questo, sistematicamente, dopo il fatidico “Ok, we’re ready!”. Durante le soste, prima della partenza e durante la guida li trovo spesso a giocare con il computer di bordo, a leggere informazioni e a cambiare settaggi di non so che cosa con conseguenti distrazioni dalla guida.
Tour Leader o Mediatore Culturale?
Ma questo è dovuto, più che alla poca pratica, al fatto di essere persone potenti e abituate a fare come gli pare. Per tale motivo, in più di una sosta su stretta strada di campagna, non vengo minimamente considerato quando gli suggerisco di spostare la moto dalla carreggiata. Ancora meno quando, contenti della deviazione del giorno prima sotto le pale eoliche, iniziano a farsi foto mentre guidano senza casco su una statale austriaca. Ho dovuto spiegargli che, se a Jakarta la polizia si inchina a novanta gradi di fronte al loro prestigio, in Austria non è un buon momento storico per essere musulmani ed extracomunitari poco ligi alle regole. E non abbiamo tempo da perdere in telefonate al consolato indonesiano né voglia di passare ore al commissariato.
Di stare in un altro mondo rispetto al loro hanno avuto prova in un McDonalds in un punto imprecisato della Polonia, dove ci eravamo fermati per pranzo: come ogni giorno, la sosta per il pranzo era accompagnata dalla preghiera, quella vera a cui non partecipavo perché sarebbe stato un bluff poco rispettoso: tiravano fuori i loro lenzuolini e stuoie, facevano le abluzioni di rito e a piedi nudi pregavano verso la Mecca in due gruppi, scegliendosi un posto defilato in cui non intralciassero gli altri avventori. In quell’occasione una commessa in divisa è venuta fuori sbraitando in polacco, agitatissima, facendo capire che tutto ciò non era ammesso.
La tentazione di lanciarle una borsa al grido di “Allah Akhbar” è stata forte ma, sempre per la poca voglia di passare ore in commissariato, sono intervenuto spiegandole a gesti (ché alla mia prima parola in inglese ha proclamato che in Polonia si parla polacco) che noi siamo cristiani, loro sono musulmani e che una religione vale l’altra: se tu puoi pregare dove ti pare, perché loro no?. “Ah, relighja!” e malvolentieri ci ha lasciati perdere.
Da quel giorno in poi in ogni sosta pranzo chiedevamo dove poterci mettere per la funzione religiosa e tutti sono stati sempre gentili. Addirittura in un ristorante vietnamita gli hanno concesso l’uso di uno stanzino inutilizzato per avere più privacy.
Il senso di un lavoro
Non fraintendetemi: il giro è andato bene, loro erano entusiasti e io mi sono anche divertito. Non è di certo un viaggio per come lo intendo io e, quando ci siamo conosciuti, loro erano semplicemente dei clienti da soddisfare. Lo sono rimasti fino alla fine ma quella che si è venuta a creare nei giorni è stata una complicità che ci ha resi compagni di viaggio e che ha mantenuto viva la loro curiosità di vedere il Mondo di persona. Quest’esperienza mi ha fatto capire meglio quanto sia articolato il mondo dei viaggiatori, composto anche (e forse soprattutto) da persone che hanno una gran voglia di vedere il mondo ma, per mancanza di strumenti, timore o semplice pigrizia, non lo farebbe se non ci fosse qualcuno che si accolla la parte più fastidiosa. Che poi per me è quella più divertente, ma mica siamo tutti uguali!
La macchina ha funzionato bene: sbrigavo io sul posto tutte le mediazioni, valutavo il percorso migliore da seguire in base all’orario e al meteo, alcune volte improvvisando ma sempre consultandomi con loro per assicurarmi che la scelta fosse accettata da tutti. Franco, a distanza, mi dava indicazioni in risposta a mie perplessità o si occupava dei piccoli, inevitabili, disguidi nelle prenotazioni. Tutte cose che, per chi non ha esperienza di viaggio, trasformano rapidamente una vacanza in un incubo da non ripetere mai più. La mia presenza e l’organizzazione di Vedett gli ha permesso di godersi queste due settimane di cazzeggio motociclistico senza pensieri e con la voglia di ripetersi l’anno prossimo.
Per me è stato edificante passare del tempo con delle persone così diverse da me e ricevere la loro stima: le conversazioni interessanti sui rapporti tra Oriente e Occidente con Ary (che sull’argomento ha scritto un libro), le pacche sulle spalle di Rahmat (che ha finito col reputarmi un grande motociclista, “really professional”), i summit con Puguh e Arystia per decidere il da farsi, il cazzeggio con Ritzky.
Alla fine dei conti è un servizio specializzato che si offre a chi ne ha bisogno (e può permettersi di pagarlo). È un lavoro, nel senso vero del termine: una cosa che richiede attenzione e professionalità. Se pensate che uno venga pagato per divertirsi vi sbagliate di grosso: immaginate piuttosto un lavoro all’aria aperta da mattina a sera, una di quelle cose che ti fanno crollare non appena tocchi un branda. Un lavoro che sta a te far diventare piacevole. E piacevole lo è stato, tanto da rientrare a pieno titolo nei buoni propositi per l’anno nuovo.
Forse per qualcuno non sarà il lavoro più bello del Mondo. Ma è sempre meglio che andare in miniera. Voi che dite?