Il giorno prima ci avevano accolto con un “Welcome to Pakistan!” sorridente e benevolo. È passata già più di mezza giornata ma mi sento ancora nel limbo indefinito della terra di nessuno.
La sveglia suona alle tre e mezza ora pakistana. Zompo come un grillo e opero immediatamente per un caffè turco. Ancora dormono tutti, l’unico insieme a me sotto il portico della caserma è il capoccia con i suoi baffi, la pelle scura e il vestito color kaki. Stranamente non sono rincoglionito dal sonno, né innervosito dalla levataccia e chiacchiero cortesemente col padrone di casa.
Mi fa ascoltare un po’ di musica pakistana che non è niente male e dimentico, come sempre, di farmi dire nome dell’autore e titolo. Er Mitraglia scende dal tetto neanche tanto stropicciato dalla notte di guardia. Inizia subito a dare le direttive e cazziare a destra e sinistra. Ché a vederlo fermo sembra la mascotte della caserma: tipo che si è pensionato e lo lasciano frequentare lo stesso perché non ha nulla da fare. Invece no: anche se non è il capo della scorta tutti gli danno ascolto e si muovono secondo le sue direttive. Un personaggio davvero notevole.
Com’è come non è, alle quattro e trenta le moto sono tutte fuori nel piazzale e pronte a partire dietro ai pachidermi. La carovana si muove ovviamente lenta, alzando un nuvolone di polvere dalle strade non asfaltate del villaggio ancora in pieno sonno. Noi e i tedeschi cerchiamo di spostarci rapidamente in testa, dietro la scorta per evitare di respirare tutto quello schifo di cui possiamo sentire il sapore in bocca per quanto l’aria ne è satura. Siamo le uniche luci su una lingua d’asfalto che taglia in due il deserto. Ogni tanto di fronte a noi appare dal nulla un camion del posto, che con le sue decorazioni catarifrangenti sembra un vascello fantasma o qualcosa di etereo e leggero. Appena partiti la moto di Hubert ha problemi di natura elettrica. Il blocchetto delle chiavi ha i contatti allentati, problema per fortuna subito individuato.
Una questione di stazza
Le incompatibilità coi pachidermi iniziano da subito: la scorta si adegua alla nostra velocità, andando più spedita della media dei camper e generando una carovana di più di un chilometro. Il turoperètor barbuto ci cazzia una prima volta al primo check point. M infastidisce il modo da esperto con cui ci dice di rallentare ma capisco e, appena ripartiti, mi adeguo. Teniamo una velocità tra i quaranta e i cinquanta all’ora e la coda pare più compatta. Sembra andare bene fin quando il barbuto non mi supera guardandomi con gli occhi sgranati e le mani giunte sul lato della testa inclinata a mimare un cuscino. Lì mi girano i coglioni e decido di odiarlo in maniera definitiva: prima mi dici di andare piano e poi mi cazzii perché siamo troppo lenti? Ma eu ti bucu i gommi! Oh test’e cazzu!
Al di là delle questioni logistiche, lo scenario e le sensazioni sono qualcosa di mai provato prima. L’alba nel deserto sferzato dal vento è una delle cose più belle a cui ho assistito finora. Di tanto in tanto un villaggio fatto di poche case di fango, oppure una stazione sulla linea ferroviaria che non si capisce se sia attiva o abbandonata. È giorno ormai fatto quando salutiamo la prima scorta, quella der Mitraglia. Da lì in poi sarà un susseguirsi di check point e militari che si danno la staffetta per proteggere questo gruppo di europei viaggianti.
“Welcome to Pakistan! Please follow us…”
Ma proteggerci da cosa? E come? Ci sono due macchine di scorta, una in testa e una in coda. Se si volesse attaccare seriamente il convoglio basterebbe prenderlo con tre auto ben armate e, iniziando l’azione nel punto giusto, passerebbe un po’ di tempo fin quando l’auto in testa non se ne accorgerebbe. A parte questo, rimane la domanda: proteggerci da chi? Quando ci fermiamo per cambio di staffetta o attraversiamo paesi e villaggi o ci fermiamo per fare benzina, i militari allontanano la gente, evitando il contatto diretto tra noi e loro. E la cosa, almeno a noi motociclisti, appare alquanto assurda, visto che siamo lì per questo. È gente che non ha nulla ok, magari potrebbero rubarci qualcosa. Ma cosa? Il GPS? Per farsene che? Ci appare assurdamente sovradimensionata l’atmosfera di tensione che la polizia mantiene viva di continuo.
Stiamo correndo paralleli al confine afghano, che si trova a pochi chilometri da noi. Quello da cui esce ed entra di tutto senza nessun controllo, secondo la guardia della sera prima. Allora il nemico sono davvero i talebani? E i ragazzini per strada sono tutti talebani? Chi minchia sono ‘sti talebani? Non riusciamo davvero a spiegarci il perché di tanta apprensione. Di fatto per giorni gli unici contatti con la popolazione locale saranno con membri delle forze dell’ordine.
I migliori amici dell’overlander in Pakistan
Considerando che uno dei problemi veri, da quelle parti, sono le tribù locali viene subito da pensare che siamo come le proverbiali pecore affidate al lupo: i Pakistan Levies sono corpi paramilitari le cui reclute sono scelte tra la popolazione locale per avere un maggior contatto con le realtà in cui operano.
Se si tiene conto del fatto che in passato questo corpo ha in qualche modo abbracciato la causa dei capi tribù beluci, che hanno come chiodo fisso quello di scassare i cabbasisi al governo pakistano,non viene da stare proprio tranquilli. Ma tutto questo ce lo diranno dopo qualche giorno a Multan. E quindi per ora stiamo tranquilli.

Facciamo rifornimento a Dalbandin, circa a metà strada, creando un discreto scompiglio tra i nostri protettori che si dividono per stare dietro alle moto. Siamo già stanchi dei ritmi imposti da scorte e carovana ma tocca starci. Il vantaggio c’è: a ogni check point bisogna annotare nome, nazionalità, passaporto, visto e targa del veicolo. I turoperètor ci hanno fatto il favore di mettere anche i nostri dati sul foglio di cui a ogni posto di controllo consegnano copia. Ed è un bel risparmio di tempo. Dopo Dalbandin la carovana gira per una strada, non segnata sulle Open Street Maps, che attraversa il vero nulla circondato di sabbia fine che, per il vento, danza sull’asfalto come fosse un lenzuolo di seta.
L’immagine è poetica, meno poetica è la reazione di uno dei camperisti che sbrocca col turoperètor, dicendogli che le moto stanno dando fastidio, visto che rallentano per fare foto, cambiano traiettoria di continuo e cose del genere. Perché, secondo lui, con due ruote dovremmo prendere tutte le buche esattamente come un camper. Veniamo allora retrocessi alla fine del convoglio, di nuovo a mangiare polvere, con la scusa che così possiamo fare tutte le foto che vogliamo. Questa misura rende palese il fatto che la Matrjoskaravan non funziona, troppo diversi i tipi di veicolo.
In tarda mattinata, di punto in bianco ci siamo fermati, sempre circondati dalla polizia, perché i pensionati dovevano sgranocchiare qualcosa. Il Barbuto, quello che ucciderei a mani nude, ci ha comunicato che dovevamo farla, questa sosta: l’accordo tra i camperisti prevede di fermarsi ogni quattro ore, eravamo in viaggio da sei ed era uno sgarro troppo grosso al pacchetto acquistato. Noi non abbiamo niente da mangiare e ci spariamo un caffè, guardati a vista dai nostri amici. Ah… l’avventura!

Guidare a sinistra nella prima vera città
Al tramonto siamo ancora lontani una sessantina di chilometri da Quetta e io mi sento discretamente distrutto, così come tutti gli altri motociclari, per i cinquecento chilometri fatti alla media di quaranta all’ora. Non mi dispiacerebbe se ci fermassimo di nuovo in una stazione di polizia persa tra i monti ma l’opzione non è contemplata. La carovana va avanti e noi con loro. Ripartiamo attraversando villaggi di fango e gente semplice che, incrociandoci, fa sempre lo stesso segno. Aprono il palmo di una mano su cui tracciano dei cerchi con l’indice dell’altra: ci chiedono penne per scrivere. Non abbiamo pensato a niente di tutto questo. E anche se ci avessimo pensato non sarebbe possibile fermarci a regalarle, visto che dovremmo stoppare un convoglio di quindici veicoli belli grossi.
Ma il problema non è la stanchezza in sé, quanto il fatto che adesso, sceso il sole, ci avviciniamo sempre più alla prima città degna di questo nome per dimensione e caos, che vuol dire uscire dalla tranquillità piatta della striscia d’asfalto nel nulla e percorrere statali, tangenziali, rotatorie e incroci. Tutto questo guidando a sinistra. Finora, guidando su una strada dritta, la cosa poteva essere affrontata con leggerezza: bastava ricordarsi di tenere la mano giusta alla vista lontana di un camion proveniente in senso contrario.

Ora no e sono confuso: quando vedo un’auto venire verso di me rallento di colpo per la fastidiosa sensazione di essere contromano. Le regole sulla precedenza sono uguali alle nostre ma specchiate e non è immediato abituarsi, così come non ci si adegua subito al senso delle rotatorie e agli svincoli delle superstrade. Oltre a tutto questo saliamo di quota e inizia a fare discretamente freddo. Arriviamo a Quetta che è ormai notte. La città ci dà il suo saluto con un paesaggio di baracche e munnezza dentro cui si muove qualsiasi cosa si possa muovere: uomini, motorette, auto, risciò a motore e a pedali, biciclette, bambini, cani, galline, capre, mucche.
Non si gioca più
Non abbiamo ben capito dove siamo diretti: qualcuno parlava di uno stadio dove ci avrebbero fatto dormire, qualcun altro di un hotel. L’unica cosa chiara è che qui la scorta serve davvero. Lo capiamo dal fatto che invece degli improbabili soggetti su due auto scalcinate, ora ci sono marcantoni atletici, ben armati e svegli su più veicoli seri, che bloccano il traffico al nostro passaggio cercando di farci stare compatti. Per la gente del posto, tenuta a debita distanza, siamo qualcosa di stratosferico e forse mai visto. Tutti si girano a guardarci, anche due su una motoretta che, per fare ciò, vanno a ‘mprascare dritti su un furgone. Ho stampata chiara l’immagine di loro a mezz’aria durante l’impatto, quello davanti appiccicato al furgone e quello dietro appiccicato all’amico, con la forcella che si accartoccia e il posteriore a un metro da terra.
Continuo a guidare imbambolato da quest’immagine, rallentando involontariamente mentre cerco di raccogliere uno straccio di pensiero sensato sul perché di tutto questo. Mi risveglia Peppina che agitata mi urla “Compatto devi stare, compatto!” Io lì sbrocco, urlandole nell’interfono che porca puttana non è facile guidare in questo bordello: se non ti piace prendi un taxi oppure stai zitta.
Siamo tesi per la stanchezza, ma ancora di più perché qui il pericolo si sente dalla polizia che non sta giocando a guardie e ladri: a metà settembre una bomba in un bazar fece tre morti e ventiquattro feriti, e lo stato di allerta è più che attivo al nostro arrivo. Ci dirigiamo verso una zona diplomatica, costeggiamo l’ambasciata dell’Afghanistan, la qual cosa non ci lascia sereni. Entriamo in un’area militare e alla fine dentro un perimetro con mura di cinta e filo spinato: la caserma della polizia, quella grande. I camper vengono portati in uno spiazzo polveroso e noi li seguiamo a ruota.
Un’altra notte in caserma.
Siamo al freddo e nella polvere, per cui vado a chiedere, con l’aiuto del turoperétor locale, se sia possibile farci dare uno stanzino dove passare la notte. Dopo un po’ di trattativa ci viene accordato il permesso, con l’impegno di lasciare la stazione l’indomani mattina. Il boss mi dice che verremo scortati dalla polizia a fare il NOC all’ufficio competente e poi all’hotel che sceglieremo per la notte. Cos’è il NOC ve lo dico la prossima volta. Ora finisco di raccontarvi questa giornata assurda, conclusasi nella stazione di Polizia di Quetta i cui militari si sono dimostrati davvero gentili. Ci fanno sistemare in due uffici con moquette su cui stendiamo materassi e sacchi a pelo. Ci fanno usare il loro fornello a gas per cucinare una delle buste di liofilizzati che teniamo per le emergenze di questo tipo, mentre scambiamo quattro chiacchiere sulla loro situazione.
Anche per loro il nemico sono i talebani, questi bombaroli maledetti. Ma chi siano ‘sti benedetti talebani non è dato saperlo. La caserma è popolata da diversi personaggi, ognuno con le sue stranezze. C’è un tipo sulla ventina che insiste nel dire di essere un “funny man” mentre ridacchia e sputazza di continuo per il tabacco che mastica, che qui chiamano nas. Il suo amico lo asseconda sobriamente ma non lo sopporta neanche lui. C’è la guardia grande e grossa e scura in viso che però si premura di non farci mancare nulla. C’è il boss dell’ufficio che non molla mai la poltrona e che aspetta stanco il giorno della pensione, che poi è quello che mi ha detto dei talebani.
Un’umanità in divisa che conferma l’impressione del giorno prima. Forse meno simpatici ma molto più ospitali di tanti professionisti dell’ospitalità a pagamento. Andiamo a nanna all’una di notte, con la sveglia alle sette o giù di lì, dopo venti ore di guida ininterrotta. Welcome to Pakistan. Ma mi sembra di stare ancora chiuso dentro un’immensa dogana.