Il paesaggio è giallo a perdita d’occhio, non tanto per i campi di girasole quanto per la campagna bruciata dal sole. Riappaiono i carretti a trazione animale e diversi agglomerati di costruzioni, più simili a baracche che a case, popolate da Rom.Per strada ne incrociamo diversi di giovanissima età, qualcuno semisvestito e grondante per un bagno in un rigagnolo lì vicino.
L’ingresso in Bulgaria è rapido e liscio.
La tentazione di entrare in un loro villaggio e vedere che aria tira è forte, ma ragioniamo sul fatto che sarebbe forse un rischio, vista l’attrezzatura che abbiamo in bella mostra. Uno dei nostri desideri è riuscire a entrare in contatto diretto con qualcuno di loro e il top sarebbe riuscire a beccare una festa tzigana. Pur non avendo pregiudizi conosciamo la realtà e sappiamo che se questo dovesse avvenire, faremo in modo di avere meno roba possibile addosso e di essere meno vulnerabili possibile.
Il paesaggio della Bulgaria ricorda le campagne del nostro sud, con le colline dall’andamento dolce tra cui giacciono vaste pianure coltivate.
Non resistiamo alla tentazione di esplorare un paio di campi di girasole, sparandoci raffiche di foto e rubando un souvenir floreale per la nostra motina che piano piano si sta abituando al carico. Decidiamo di fermarci a Sofia, la capitale, per la notte dopo un breve e nervoso summit sul da farsi. Alloggiamo in una piccola pensione gestita da una ragazza molto gentile e carina con cui il Mastino delle Contrattazioni entra subito in sintonia, tirandole un buon prezzo.
A questo punto della storia è opportuno che vi descriva i personaggi dell’Operazione Membro di Segugio.
Io sono Totò, all’anagrafe Antonio. Chi ha seguito il racconto del mio viaggio a Samarcanda mi avrà già inquadrato.
Viaggiare da solo non è che mi piace: ci sguazzo proprio.
Anche non avendo fatto chissà quali viaggioni, mi posso comunque ritenere un motoviaggiatore di media esperienza. Ho sempre ritenuto importante conoscere almeno l’inglese per stare in giro senza guide o intermediari e, essendo attratto da mete orientali, ho ritenuto opportuno studiare un minimo di russo.
La cosa su cui sono un pò debole sono le contrattazioni. Non sempre riesco a spuntare il prezzo che voglio ma, a parte qualche mazzetta estorta da poliziotti definibili tali solo per la divisa, non sono mai andato in perdita pesante. Alla fine mi ritrovo a dare maggiore importanza all’aspetto antropologico della trattativa più che al suo esito.
Peppina, al secolo Alessandra, è un po’ diversa.
Non proprio diametralmente, ma per alcuni aspetti non mi vede manco da lontano. Per lei questo è il primo viaggio interamente in moto e, a onor del vero, lo affronta molto bene, senza mai lamentarsi neanche sotto la pioggia battente o quando il caldo diventa torrido.
E’ tosta, sì.
E se ci siamo avvicinati è stato anche per la visione comune del Viaggio, che ha senso solo se ci si mescola alla gente dei posti visitati, entrandovi in contatto. Viaggiatrice di un certo livello, l’anno prima stava in Ecuador e Amazzonia zaino in spalla, perdendosi tra laghi vulcanici in alta quota e foreste di mangrovie, mentre io mi insabbiavo nel deserto kazako guadagnandomi il titolo di Minchia del Deserto.
Se il mio approccio alle cose prevede una fase di studio teorico prima di lanciarmi nella realtà delle cose, lei ci entra a capofitto senza ponderare più di tanto.
Forse è dovuta a questo la sua ferma riluttanza, almeno finora, a imparare una lingua straniera come (una a caso) l’inglese. La cosa che mi sconvolge è che riesce comunque a farsi capire, strappando sorrisi e risate e spuntandola nelle contrattazioni, andando oltre gli strafalcioni, o forse grazie a questi. Un esempio è proprio la stanza trovata a Sofia, una camera dignitosa che affaccia su un cortile che porta su una stradina secondaria, in un quartiere di case basse a ridosso del centro città. Peppina si stupisce del perché proprio quella se ce n’erano altre libere. L’arcano è subito svelato quando mi racconta di aver chiesto una “street room”, mimando con le mani una cosa piccola , volendo dire che una stanza di modeste dimensioni fosse sufficiente.La Tipa ha messo insieme le informazioni e ci ha dato una stanza piccola e su strada.
A discapito di tutto Peppina è una regina della trattativa.
La sera prima a Skopje aveva tirato sul prezzo dicendo che potevamo metterci in un letto solo, piuttosto che occuparne due, essendoci solo letti singoli. Lo sconto non era praticabile in questi termini, visto che si sarebbero lo stesso dovute fare due registrazioni, ma le è stato concesso lo stesso. Non ho assistito al dialogo improbabile, ma credo abbia sfiancato la tipa alla reception un po’ per simpatia, un pò per disperazione.
Credo che la cosa che le consente di sfangarla in tutte le situazioni sia la teatralità partenopea, insieme all’intuito e alla gestualità.
Sebbene un po’ meno paziente del sottoscritto, anche lei guarda le persone negli occhi e si affida a tutto quel lato della comunicazione che esula dalle parole. Questo, in breve, è l’equipaggio dell’operazione alle sue prove generali di viaggio: se riusciamo a stare venti giorni su mezzo metro di sella abbiamo vinto.
Sofia è gradevole da vedere di giorno, ma la sera ci lascia un po’ perplessi.
Ceniamo in un posto dietro la pensione e a piedi andiamo verso il centro, orientandoci con una cartina turistica. In quanto capitale di uno stato ex comunista si percepisce la volontà dell’amministrazione di puntare sulla cultura e sul patrimonio architettonico, e la gioventù ci tiene sicuramente a vivere in una città viva di fermento e di creatività.
Ma quasi tutti i bar e locali sono chiusi e non è neanche mezzanotte. Vaghiamo per le vie semideserte del centro e troviamo qualcosa di aperto intorno alla cattedrale, ma sono due posti un po’ troppo finto fighetto per noi, e la musica è la solita tamarro dance, che nell’est impazza insostenibilmente.
La città è bella senza dubbio. Alcuni edifici, come il teatro nazionale sono ben tenuti e troneggiano orgogliosamente.Nelle vie secondarie in alcuni angoli un po’ più malmessi per un attimo ci si può immaginare una scena da guerra fredda. Ma la cosa che più attira la mia (la nostra) attenzione, e so che non è politicamente corretto dirlo, sono delle cassette elettriche e della posta decorate da uno street artist.
Finiamo a bere io una vodka e lei un Bailey’s , entrambe in boccettine da alcolisti, davanti a uno spaccio ultrafornito di alcoolici e tabacchi di ogni sorta, un vero paradiso del vizioso che vorremo aprisse subito anche in Italia. Io mi soffermo sull’assortimento, Peppina approfondisce l’argomento prezzi. La giovane figlia della proprietaria, dopo averci servito e pazientato mentre sceglievamo, va via col suo fidanzato, mentre la madre rimane all’altro tavolo con un uomo a chiacchierare. E’ gente tranquilla e socievolmente discreta: mentre non riuscivo ad aprire la vodka, l’Uomo ha preso tutta la borsa degli attrezzi in macchina per tirar fuori qualcosa che aprisse quella dannata boccetta di Movskovskaja.
Mentre beviamo, stanchi per il caldo, guardo la strada e le vetrine. Un susseguirsi di banche e negozi di abbigliamento e telefonia. Mi chiedo come sarebbe stato vivere qui trent’anni prima, in pieno regime o subito dopo. Dovremmo fermarci di più per saperlo, ma in fondo non ce ne importa più di tanto, abbiamo un’ altra meta. Anche se effettivamente ancora non sappiamo dove minchia andremo.
La mattina dopo ci avviciniamo molto lentamente a Oryahovo, sul Danubio.
Ci mettiamo tanto non solo per i lavori in corso sulla strada, quanto per un paio di deviazioni tra i campi di girasole a ridosso di paesini sonnecchianti, mentre trattori solitari solcano la terra per la milionesima volta.
Sostiamo per il pranzo, sfiancati dal caldo afoso dopo poche ore di marcia, nella piccolissima veranda di una altrettanto minuscola bottega. L’ingresso dell’abitazione dei proprietari è su un lato corto della veranda. Non riusciamo a scambiare più che un saluto con l’anziano signore che ci osserva da dentro, e poco più di un grazie con la donna che sta al banco in
attesa di chissà quali clienti.
La direzione per Oryahovo è inconfondibile e rivedo la strada fatta l’anno prima per altre mete. Per Peppina è tutto nuovo, io ho un’ombra di perplessità: il percorso è buona dal punto di vista tattico, ma ancora non ho avuto brivido di novità vera.
Questa sensazione si allontana quando ci concediamo un bagno sulla riva del Bel Danubio Blu, che da vicino tanto blu non è. L’acqua è limacciosa, ma pulita, e la riva è cosparsa di gusci di vongole nere. Quella che vediamo dall’altra parte è la Romania, che ben si presenta affollata di alberi. E di placida vita fluviale: sono tante le barche e le chiatte che lentamente solcano le acque del fiume, trasportando merci e persone mentre sulla riva sonnecchiano pescatori nelle loro baracchette.
In lontananza si sente lo sferragliare delle operazioni di carico delle imbarcazioni. Il tempo di rivestirci che già il caldo ci soffoca nuovamente mentre raggiungiamo il porto del traghetto, a un paio di km dal nostro bagno. Arriviamo sparatissimi e non ci fermiamo all’ingresso del porto: la guardia esce urlando incazzatissima dal gabbiotto infuocato,
Peppina s’incazza con la guardia, io m’incazzo con Peppina.
E’ tutto un girar di palle completamente inutile. La sbarra era alzata, la guardia si è sentita lesa nella sua autorità e Peppina nella sua dignità di cittadino, ma basta chiedere scusa e chiarirsi e per la madonna state calmi che fa caldo!
Fatti i biglietti scopriamo che il ferry è appena partito e il prossimo è tra un’ora. Cazzoni! era quello lo sferragliare che sentivamo mentre stavamo a sciacquettare nel fiume. Ne approfittiamo per stemperarci al fresco dell’aria condizionata nel bar, mentre ci assale il dubbio su che strada prendere, di nuovo. Ora le perplessità si invertono: Peppina ha un attimo di scoramento sulla distanza da percorrere, ma le faccio notare che ‘sticazzi: un bagnetto ci stava tutto e siamo qui per fare quello che ci pare. La traversata dura poco, troppo poco. E’ la seconda volta che prendo questo traghetto e anche ora vorrei che ci portasse un po’ più lontano dell’altra sponda di un fiume. E anche stavolta, a dispetto della distanza, questa chiatta sta per scaricare il suo variegato carico umano in un’ altra dimensione, regalandomi ancora una volta quella sensazione alla bocca dello stomaco del viaggio che inizia sul serio.
Il dubbio sulla direzione da prendere verrà dissipato appena sbarcati , nella cittadina di Bechet, quasi interamente abitata da Rom. Ci fermiamo a fare benzina e mentre Ale paga, io mi metto a parlare con un paio di tzigani che vivono in Italia e si trovano lì per le ferie. Uno lavora nell’edilizia come operaio. L’altro, il più panzone tra i due, con camicia aperta d’ordinanza e baffo fiero, raccoglie rottami.
Mi dicono che a Sebes e Alba Iulia , in piena Transilvania, il giorno di ferragosto c’è una megafesta gitana per Santa Maria, con zingari da ogni parte della Romania e musica per la strada. Perfetto! abbiamo una direzione da prendere:
l’Operazione Membro di Segugio entra nel vivo, e nel migliore dei modi.
Questa notizia arriva dopo la mail di Alex (Heavy Duties) che ci chiede conferma della nostra visita e ci informa che nel weekend sarà assente da Cluj. Tutto quadra a pennello, dato che Sebes è esattamente sulla strada e ci possiamo arrivare tranquillamente passando per la Transfagarasan senza perdere l’appuntamento con Alex.
Mentre discutiamo sul da farsi, intorno a noi si forma un capannello di gente che vuole indicarci la strada. E sembra un pacifico scontro etnico tra Rom e Gagè (non- tzigani): La benzinaia ci dice di fare completamente un’altra strada, passando per Craiova, Targu Jiu e Deva perché, a suo dire, la strada è migliore e, incontrando città più grandi, troveremo di sicuro dove dormire. E nel fare questo cerca conferme da altri clienti della stazione di servizio. Cominciamo a pensare entrambi, senza dircelo, che la tipa abbia una parente proprietaria d’albergo a Craiova, visto che ci ripete di fermarci lì. Ma quella strada è a ovest, molto prossima al Banato, che è la parte più dritta e pallosa dell’Europa dell’Est. Decidiamo di fidarci dello zingaro panzone e di fare la stessa strada che percorsi da solo l’anno prima, che ricordo poco trafficata , veloce e bella da vedere pur se pianeggiante.
E poi non vorremo mica perderci la Transfagarasan? La scelta si rivela valida: mentre il sole tramonta attraversiamo villaggi e villaggetti con le loro casette tipiche e giardino dall’aspetto decadente ma molto graziose, mentre Peppina scatta foto a raffica tutto ciò che si muove. Ci facciamo tante domande sul perché la gente scappi da lì per venire a vivere in un paese come l’Italia,dove bene che ti vada riesci a prendere un appartamento in una caotica città. Certo se sei giovane e vuoi avere qualche speranza, quella landa piatta che risponde al nome di Valacchia va salutata al compimento della maggiore età, se non prima.
A occhio tutto ruota intorno all’agricoltura, dalla coltivazione alla vendita e d’istinto ci verrebbe da dire che qui ci vivremmo bene, salvo pensare subito dopo che al settimo giorno ci sarebbe da tagliarsi le vene per la monotonia. Abbiamo tante domande, ma la certezza che siamo entrati nel paese che volevamo visitare insieme. Siamo partiti a cazzo di cane e, come volevasi dimostrare, quando ti muovi qualcosa succede da se. Per la cronaca dormiamo a Caracal, una settantina di km a nord, in un albergo ristorante sulla strada. Prezzo insindacabile in tutta la città: 25 euro. Questa cosa scuote molto l’orgoglio partenopeo di Peppina, che mal si predispone nei confronti del cameriere, a sua volta mal predisposto nei confronti della vita. Quest’ultimo proverà comunque a spiegarci qualcosa della cucina rumena, pur non parlando inglese né tantomeno italiano. Peppina avrà la sua rivincita l’indomani, quando riuscirà a spuntare uno sconto e la colazione offerta per lo scarico del bagno difettoso.