Il monastero Davit Gareja si trova a pochi km dalla capitale Tbilisi.
Ci andai nel 2011, la mia prima volta nel Caucaso, insieme a Ilaria, una ragazza italiana diretta in Iran, appena arrivata quella stessa mattina alla Dodo’s Guest-house di Tbilisi.
Ci si arriva in poco tempo attraversando il nulla della campagna georgiana dopo essere usciti da una strada di una certa importanza che punta a sud-est, verso l’Azerbaijan. Era una bella giornata di fine Agosto e il giallo dei campi già esauriti faceva da contrappunto al verde delle aree incolte punteggiate da gruppi d’alberi.
Seguendo i pochi cartelli e credendo di sbagliare strada più volte raggiungiamo il crinale che segna il confine tra Georgia e Azerbaijan: il Monte Gareja.
L’ingresso al monastero è sul lato Georgiano e lì si trova la parte non scavata nella roccia.
Siamo gli unici turisti e il silenzio ci avvolge, ispirando un senso di rispetto profondo per il posto e per i monaci di cui avvertiamo la presenza, senza però riuscire a vederli.
Un po’ titubanti decidiamo di seguire le indicazioni di Lonely Planet per raggiungere il monastero antico.
Per una volta la guida fornisce indicazioni precise: bisogna seguire un corrimano arruginito che si inerpica lungo il ripido fianco del rilievo, e che in alcuni punti è mancante o mimetizzato nella sterpaglia. Arriviamo in cima spompati e col dubbio che valga la pena di tutto questo ma la vista che ci si presenta cancella ogni perplessità.
Alle nostre spalle la Georgia, di fronte la pianura sconfinata e semidesertica dell’Azerbaijan.
Intravedo piste e tracce di veicoli che vanno da un punto imprecisato all’altro, perdendosi nella sabbia che il vento solleva.
Sotto i nostri piedi, la linea del crinale si perde all’orizzonte dividendo due terre, due popoli, due climi.
Visitiamo le celle e le sale occupate in passato dai monaci, interamente scavate nella roccia e decorate da affreschi ancora visibili.
In alcune di esse troviamo candele e icone portate di recente dai fedeli in visita.
Forse la fede non muove le montagne, ma senza dubbio le scava.
Davit Gareja, così isolato dal resto del mondo, è perfetto per contemplare l’infinito e meditare su di esso.
Nonostante ciò è stato per secoli centro di potere religioso e politico e la sua posizione sperduta non l’ha preservato dalla distruzione operata dai mongoli durante le loro scorrerie.
Davit Gareja è stato anche utilizzato come poligono di tiro per le esercitazioni dell’armata rossa
ai tempi della guerra con l’Afghanistan. Dopo un anno di questo utilizzo, una mobilitazione studentesca guidata dallo scrittore Dato Turashvili portò 10mila georgiani a manifestare apertamente contro lo scempio di questo patrimonio nazionale.
La storia si ripete nel 1996 ma stavolta a opera del governo ormai indipendente. E di nuovo il popolo si ribella, con tanto di camping nel bel mezzo dell’area di esercitazione, riuscendo a far sospendere definitivamente le esercitazioni in quell’area.
Dopo la visita alle celle e al refettorio torniamo in cima.
Mentre ci ritroviamo a parlare di banali cose delle nostre vite quotidiane,
un falco compare dalla valle galleggiando per qualche secondo nell’aria a pochi metri da noi, quasi ad ammonirci per la nostra distrazione.Ritorniamo a contemplare il paesaggio nel silenzio più assoluto, appagati dalla vastità.
Lasciamo Davit Gareja dopo il tramonto, puntando dritti verso Tbilisi e il suo folle traffico.