A Bukhara ci arrivo la sera tardi, dopo i 200 e passa km di sterrato e polvere che costituiscono buona parte della strada che da Khiva porta qui. I motociclisti tedeschi alla Guest-house mi suggeriscono di fermarmi almeno un giorno intero. Io Seguo senza pensarci troppo il loro consiglio, anche perchè da Astrakhan non mi sono mai fermato nello stesso posto per due notti di seguito.
Gironzolo tranquillamente tra piazze e vie di una città antica di secoli che solo apparentemente vive ormai di turismo.
Bukhara non è stata trasformata in bomboniera ma vive la sua vita di artigianato e commercio.
Poco vicino alla locanda si trova la grande piazza Lab-i-Khauz , con al centro la grande vasca d’acqua, probabilmente centro della sterminata rete di pozzi che per secoli hanno reso abitabile quest’angolo del deserto del Kizil Kum, i cui canali sono ancora visibili qua e là per la città. I sovietici costruirono una rete di canalizzazioni moderne, mettendo fine alle pestilenze provocate dall’acqua stagnante.
Non faccio il turista di giorno da quando ho visitato Astrakhan dove non mi sono sentito per niente accolto.
Qui a Bukhara, invece, l’essere solitario non è un limite. Anzi è come se fosse possibile entrare ed uscire in ogni momento da questa condizione.
Mi fermo a comprare delle sigarette in un chiosco che vende altro e mi sento confortato dal sorriso della bellissima venditrice, giovane ma in attesa del secondo figlio. Attraverso il Bazar Taki- Zargaron e visito la medressa di Ulughbek, non restaurata ma forse per questo ancor più carica di fascino, il cui cortile è occupato da bancarelle di artigiani locali.
Il minareto Kalon è davvero qualcosa d’ impressionante,
una delle poche cose che quel mattacchione di Genghis Khan risparmiò quando rase al suolo la città nel 1220, circa un secolo dopo la costruzione del minareto.
Si tratta di una torre alta 47 mt, le cui fondamenta si infiggono per 10 mt nel suolo (contando anche lo strato antisismico costituito da canne). Per intenderci 47 metri corrispondono agli odierni 15 piani e mezzo: niente di eccezionale per un edificio in cemento armato, ma assolutamente notevole per una torre isolata in muratura portante. Ancor più considerando che dalla sua realizzazione non ha mai necessitato di restauri.Nell’ intento di Arslan Khan doveva essere così alto per gettare l’ombra dell’Islam su tutto il mondo.
La leggenda vuole che il Khan avesse ucciso in un litigio un Imam.
Una notte questo venne in sogno al Khan e pretese che la sua testa giacesse in un posto dove nessuno avrebbe potuto calpestarla. Detto fatto, venne seppellito sotto la torre.
Di fianco alla torre stanno, contrapposte a descrivere la piazza, la Moschea Kalon e la medressa di Mir-i-Arab. La moschea, di nuovo attiva dal 1991, si sviluppa intorno a un cortile capace di ospitare 10mila fedeli. Vi si respira la geometria dell’Architettura Islamica, pura e semplice nell’impianto ma di una complessità esponenziale man mano che gli occhi salgono verso il cielo.
Cerco di stare distante dai gruppi di turisti.
Soprattutto da quelli che parlano, da ovunque essi provengano, dei cazzi loro.
Mi accosto invece, senza dire una parola per non farmi sgamare, a un gruppo di una decina di italiani che seguono una guida russa che parla loro della medressa antistante la moschea.
Pare che secondo la leggenda per costruire questa scuola coranica, tuttora attiva e mai chiusa neanche dai sovietici,il Khan abbia contravvenuto a uno dei principi dell’Islam, ovvero quello che prescrive ai musulmani di non ridurre in schiavitù altri musulmani. Servivano molti soldi per la costruzione della scuola e il Signore dell’epoca non ci pensò due volte a vendere parte del suo popolo come schiavi agli infedeli per pagare le spese.
Ecco: questo è il motivo per cui tante volte rimango perplesso di fronte alle meraviglie del mondo, ai patrimoni dell’Unesco, alle perle dell’Architettura, ai palazzi reali e a tutte queste manifestazioni materiali della vanità umana. Che sia in nome di Dio, della Nazione, della Libertà, del Popolo, del Progresso. In nome di qualsiasi cosa migliaia di persone sono state sfruttate, schiavizzate, e fatte morire di sforzi per costruire qualcosa il cui nome rimane quello del Padrone che l’ha voluto. Qualche volta si ricorda il nome dell’Architetto, mai si ricordano i Disgraziati morti in cambio di un pezzo di pane per onorare il volere del Padrone. E noi ora stiamo qui davanti a scattarci foto uguali a quelle di altri, ergendo a simboli di pace le testimonianze della prevaricazione dell’uomo sull’uomo, oltre che del genio dello stesso.
Immerso in questi pensieri svicolo verso quello che scopro essere il bazar degli orafi.
Faccio un giro rapido, visto che pare essere meno suggestivo e mi fermo per un tè in una piccolissima chaikhana nel cortile antistante.
Sto al mio tavolo a sorseggiare soddisfatto il mio tè, dopo aver ordinato anche da mangiare.
Chiaramente incuriosisco qualcuno e inizia la chiacchierata con un paio di tipi al tavolo di fianco. Uno di loro ha il laboratorio di tappeti lì a fianco. Parliamo di tutto un po’ e sono sorpreso di quanti pochi intoppi ci siano nella conversazione. Certo non parliamo di massimi sistemi, ma riesco lo stesso a portare il discorso sulla loro situazione. E grossomodo mi viene confermato quanto dettomi dal contadino il giorno prima.
Sostanzialmente se non lasciano il paese per vedere il mondo è per una questione di valore della moneta.
Solo i ricchi Uzbeki possono permettersi viaggi in Europa.
Pare non ci siano grossi problemi per i visti. Mi confermano che lo standard di vita è abbastanza dignitoso. Certo, ci sono i ricchissimi e qualcuno è più vicino alla povertà.
Ma finora non ho visto un mendicante che si possa definire tale e pare che il problema dei senzatetto non esista.
Per cui o il governo li prende di notte e li brucia senza lasciare traccia, o effettivamente in questo paese c’è davvero il rischio di vivere una vita dignitosa anche senza mezzi adeguati. Certo non si può parlar male del governo o della polizia, ma non ho sentito tensione o falsità nelle loro risposte, né li ho visti ammiccare tra di loro per concordare al volo una risposta che non fosse troppo esplicita.
E parliamo di un paese ampiamente servito da internet, dove il russo si insegna a scuola e quasi tutti gli operatori turistici e commercianti coinvolti in questo mercato parlano inglese.
Arrivo alla conclusione che se hai poco di cui lamentarti la censura non pesa poi così tanto, evidentemente.
In ogni caso, finisce a pranzo pagato e foto insieme.
Quando gli chiedo l’indirizzo per mandargli la foto, mi danno l’indirizzo fisico del laboratorio di tappeti. Non hanno internet. Mi faccio scrivere l’indirizzo sul taccuino, ma inutile dire che quella foto non è mai stata ne’ stampata ne’ spedita. Capita, ogni tanto!