Totò le Motò è sul numero 11/2013 di InMoto, con un mio articolo sul viaggio a Samarcanda del 2012.
Sarei un bugiardo matricolato se non vi dicessi che sono stra-contento del primo articolo su una rivista del settore, anche perchè il pezzo è scritto da me ed è corredato dalle mie foto. Sono soddisfazioni, inutile e stupido negarlo.
Quando mi è stato chiesto di scrivere qualcosa su questa esperienza ero partito con un semplice riassunto del viaggio in moto a Samarcanda
ma la cosa mi apparve subito priva di senso. Alcuni brani di questo viaggio sono riportati in alcuni a rticoli di questo sito, come le statali kazake o la giornata a Bukhara. e l’ebook sullo stesso viaggio è ormai disponibile in tutti gli store on line.Cestinai tutto e ricominciai a scrivere. Ne è venuta fuori una riflessione sul senso del viaggio in solitaria e sul valore della scoperta.
A un mese e passa dalla pubblicazione sulla rivista posto qui l’articolo completo, che il buon Goffredo Bagnoli ha ritenuto opportuno intitolare:
Il Motonauta
Ci sono storie che parlano di grandi viaggi, compiuti con ottime moto, mezzi di supporto, lunghe preparazioni atletiche
di blasonati pilotoni o personaggi abbastanza noti del mondo dello spettacolo, supportati e spinti da vere e proprie società di produzione.Di solito in questi viaggi non è tanto importante il contatto con le popolazioni locali, quanto le immagini strafiche e suggestive di centauri nel deserto che sollevano nuvole di polvere che rifrange la luce del tramonto.
Bene, non è questo il caso. Il sottoscritto appartiene alla variegata costellazione di chi schiatta di fatica tutto l’anno per racimolare i soldi da sputtanare in un’ avventura verso posti lontani e quasi mitologici, mondonauti guardati di traverso da amici e familiari che di anno in anno si convincono sempre più che il loro caro abbia qualcosa di storto negli ingranaggi della capoccetta.
Siamo un esercito multiforme e policromo che con ogni sorta di veicolo, purchè abbia due ruote, parte appena i soldi risparmiati gli consentano di stare via qualche settimana per scoprire un pezzo di mondo in più.
E si tratta di viaggi sognati, studiati, immaginati per mesi.
E ogni volta è come partire per la prima volta, tanta è l’emozione per questa fuga finalmente guadagnata. Sì, decisamente io appartengo a questa categoria.
Quella che brevemente vi sto per raccontare è la storia di uno qualunque di questi viaggi, compiuto da me, uno qualunque di questi viaggiatori, nell’Agosto del 2012.
Anzi no, non vi racconterò il viaggio in sè: ci vorrebbe troppo tempo per riferirvi gli avvenimenti, gli incontri, gli imprevisti di 35 giorni e 15mila km. Lo spazio a mia disposizione è troppo ristretto e dovrei limitarmi a fare un elenco sommario di toponimi, kilometraggi e documenti che sono sì parte integrante di un viaggio ma non ne esauriscono la totalità.
Preferisco parlarvi delle singole parti da mettere insieme, procedere quasi per argomenti chiave.
Innanzitutto la Sfida e il Confronto:
la prima con se stessi, il secondo con le altre culture. Sfidare se stessi non solo in termini di prova di resistenza o vedere quanto si è cazzuti in off, ma sfidare il proprio modo di essere e le proprie convinzioni nel confronto con un clima avverso e altri modi di vedere il mondo, senza nessun supporto riconducibile alla vita di tutti i giorni che possa dare una mano nel momento del bisogno. Uno dei miei sogni nel cassetto era di andare a Samarcanda,in Uzbekistan, attraversando parte della Russia, l’Ucraina, la Romania e il famigerato Kazakhstan.
In ognuno di noi appassionati mototuristi, gli “Stan” rappresentano le leggendarie terre delle steppe e dei deserti su cui correre liberi e riconciliarsi con la natura attraverso il contatto con le genti che le popolano. Per me era fondamentale, stavolta, riuscire a comunicare con i locali: l’anno prima in Caucaso è stato davvero problematico riuscire a intavolare discussioni su qualcosa che non fosse il cibo: la pecora fa bee e il pollo coccodè e fin lì ci siamo, di fame non si muore. Sigarette e benzina riesci a comprarle pure.
Ma come parlare della vita, della politica o della religione? Come entrare davvero in contatto con la gente? Per questo mi sono sparato un corso di 100 ore di russo di primo livello da novembre a maggio: il miglior investimento degli ultimi anni dopo l’acquisto di Sofia, la mia tenerè 660 del 2008. E già imparare questa lingua è stato una sorta di rodaggio per la mente: cominciare a ragionare con un’altra struttura linguistica è un buon inizio per introdursi alle diversità del mondo, cosa che già mi riesce di mio.
Oh, capiamoci: non è che dopo 100 ore di corso sono arrivato lì come un madrelingua.
Tutt’altro! I primi giorni in Ucraina sono stati davvero tosti e imbarazzanti. Due avvenimenti mi hanno aiutato a slegarmi: la prima richiesta di mazzetta da parte della polizia (15 euro sfumati, ma vuoi mettere la soddisfazione di farteli fottere dopo una contrattazione in russo?) e una festa di compleanno beccata per caso nel motel dove decisi di fermarmi una sera, nel nulla tappezzato di girasoli. Invitato dalle zie della festeggiata, finii a ballare dance tamarra con le buzzicone locali e a cantare Celentano e Cutugno con le stesse, tra una lezione sulle parolacce ucraine e corrispettivi italiani e non so quanti bicchieri di vodka: la peggiore sbronza della mia vita dopo la prima a 15 anni, quando mi portarono a casa a spalla in pieno delirio. Giorno dopo giorno ho acquistato maggiore confidenza, scoprendo nuovi termini. Unendo una sintassi essenziale alla proverbiale gestualità italiana sono riuscito a tirarmi anche discussioni abbastanza serie, come quella in casa di una famiglia uzbeka che mi ha invitato per il pranzo. In quell’occasione il mio ospite mi fece capire come quello che da noi viene definito uno stato di polizia possa essere in realtà uno stato sociale dove è garantito tutto quello per cui in Europa scendiamo in piazza a prendere mazzate dalle FdO.
Un altro argomento chiave è sicuramente la Strada,
che si porta dietro la Responsabilità sulle proprie Scelte: se viaggi da solo e sbagli una tappa, o sei in ritardo, non hai un compagno con cui incazzarti. Il pirla sei tu e ti tocca starci. Entrato in Kazakhstan ero in clamoroso ritardo rispetto ai tempi che mi ero prefissato (in realtà lo ero gia dall’Ucraina). Costeggiavo la riva del Mar Caspio e dopo Atyrau dovevo scegliere se andare a nord verso Aktobe per vedere il cimitero delle navi ad Aral o procedere a sud verso Beyneu per entrare direttamente in Uzbekistan. Incontrai delle persone che mi confermarono si potesse tagliare la testa al toro passando per il deserto e dopo circa 700 km sbucare al cimitero delle navi. Dormii sotto le stelle nel giardino di uno di loro, gasatissimo all’idea di me che sfreccio nel deserto sollevando finalmente anch’io la mia nuvola di polvere che rifrange la luce del tramonto. Pur svegliandomi all’alba, a causa dell’ospitalità islamica non riuscii a partire prima di mezzogiorno, appesantito da una tanica di benzina da 20 litri(regalo obbligatorio del mio ospite) che, insieme al mio carico già notevole, mi impediva qualsiasi manovra repentina. Dopo una 50ina di km decisi di tornare indietro, ma non feci in tempo a invertire la rotta che sprofondai in una pozza di fango solo all’apparenza rinsecchito. Lasciai lì la moto e camminai per 15 km e 4 ore, sotto il sole a 60 gradi, prima di raggiungere un ricovero per cammelli, disabitato, dove ci fosse campo GSM. Mi venne a recuperare uno degli amici della sera prima, parlante inglese, insieme al fratello, su un furgoncino Uaz degli anni 60, bellissimo e agile come una capretta. Mentre tornavamo verso Qulsary, al tramonto tra la polvere (e daje), mi autoproclamai “Il Minchia del Deserto”. Quella sera dormii dal mio soccorritore, dopo aver studiato le possibili varianti per proseguire. Samat non faceva altro che bocciare ogni mia soluzione prefigurandomi morte certa. Negava addirittura che da Beyneu fosse possibile entrare in Uzbekistan senza insabbiarsi o perdersi. Salutai lui e la sua famiglia il mattino successivo, dopo aver lavato la moto e i segni di 7mila km di viaggio, convinto di ritornare verso ovest. Fu l’incontro con uno sconosciuto dai denti d’oro a convincermi che potevo farcela, confutando punto per punto tutte le affermazioni del mio ospite. Quando gli dissi che sono soltanto un idiota e non un eroe mi rispose: “Idiota o eroe, chi può dirlo? Se non vai non puoi saperlo!” Passai due ore in una fermata dei bus, con le mappe della Russia e dell’Asia centrale spiegate, le guide aperte e il navigatore Android a calcolare percorsi. Decisi di proseguire in una botta d’autoesaltazione delirante. E tutto andò bene: cinque giorni dopo arrivai a Samarcanda.
Vien da sé che altri elementi chiave sono l’Incontro e l’Imprevisto.
Andare da casa fino alla meta sarebbe un semplice susseguirsi di km, ma il viaggio vero è ciò che accade per strada: una caduta, qualcuno che ti ospita, sbagliare strada, un problema tecnico. Sono tutti avvenimenti che nella vita di tutti i giorni rappresenterebbero enormi seccature e perdite di tempo. In viaggio diventano il motore dell’avventura e della conoscenza, la leva per far saltare i piani che più o meno ci tengono attaccati alla nostra vita ufficiale. Se un tassista mi taglia la strada a Roma mentre vado al lavoro, non ci finisco di certo abbracciato a farmici foto insieme, nè tantomeno lui mi invita a casa sua per un the. In Dagestan è successo, e ci siamo anche schiattati di risate. Però solo dopo aver accolto la perla di saggezza di chi suo malgrado mi ha scaraventato a terra: “sei vivo e ti muovi da solo: che ti lamenti a fare?”. Ed è difficile capire se sia la provvidenza o una botta di culo a mandarti un russo armato di bende e acqua ossigenata a soccorrerti quando ti cappotti a 100kmh nel nulla intorno ad Aral, che ti aiuta a rialzare una moto stracarica, ti medica e scompare nel deserto dopo tutto questo. O ancora Incontrare due tedeschi su bmw bruciati dal sole sulla pista tra Khiva e Bukhara che ti informano che è aperta la frontiera tra Georgia e Russia, dandoti la conferma che il giro che hai azzardato può continuare in quella direzione. Già… il caso: esisterà davvero una sorte, buona o cattiva che sia? O si tratta piuttosto di avere tutti i sensi accesi e all’erta, osservare i gesti e i movimenti degli sconosciuti incontrati, il guardarli negli occhi e capire cosa succede a prescindere dalle barriere linguistiche? Mi piace pensare che liberarsi dalle catene della vita di tutti i giorni, comoda ma con poche soddisfazioni e preordinata nei suoi ritmi e rituali, ci riavvicini al primitivo istinto di salvaguardia che ognuno si porta dentro. Attraversare un deserto o una steppa, circondato da falchi, cammelli, vacche e camionisti non può che farci rientrare in una sorta di respiro dell’universo, in cui tutto è concatenato in causa ed effetto. Poi, chiamatelo Dio, Allah, Buddha o come vi pare. Ma quello è. E se ne può cogliere l’essenza attraverso l’ altra parola chiave, anch’essa molto importante:
la Vastità.
Abbandonare la prospettiva ristretta di una scrivania o di un televisore. Uscire dalle quinte limitate delle costruzioni urbane, palazzi, cavalcavia, tangenziali. E’ il senso di iniziale smarrimento che si può provare facendo un giro in campagna o tra passi di montagna. Ma nelle steppe e nei deserti tutto questo viene elevato all’ennesima potenza. Per noi cittadini europei non è usuale vedere l’orizzonte così lontano da essere una linea immaginaria in cui cielo e terra si toccano, così come è per noi inusuale percepirsi come un puntino minuscolo dentro una infinita calotta azzurra. Quando si fa pace con il disorientamento si fa pace con i cazzi di tutti i giorni, iniziandoli a vedere come questioni relativamente misere rispetto alla cosa più importante che abbiamo il dovere di tenere presente: siamo vivi, senzienti e sensibili e non importa il perché, ma dobbiamo goderne finché possibile, ringraziando chi ha avuto quell’estasi di vita che ci ha fatto venire al mondo.
Le ultime parole chiave che mi sento di considerare sono
il Conflitto, i Media e l’Ospitalità.
Vi chiederete cosa c’entrino queste parole l’una con l’altra, vero? Non è così strano a ben vedere. I Media ci terrorizzano continuamente descrivendoci gli altri da noi come ladri, stupratori, terroristi. Ci raccontano guerre vicine e lontane come operate da gente sanguinaria e senza scrupoli dedita a minare la pace e la tranquillità di noi occidentali buoni e pacifici. Noi siamo i buoni, loro i cattivi. In tutti i miei viaggi non ho mai sperimentato niente di tutto questo. Attraversare una zona di conflitto come la Cecenia fa aprire gli occhi su quanto sia molto più complessa la realtà: la pressione militare esercitata dal governo centrale è fortissima e palpabile. Un popolo intero è vessato dal suo stesso governo per ragioni politiche e di controllo territoriale. Ma la scusa agli occhi del mondo è la religione, la guerra santa. In realtà basta poco all’occhio attento per capire che, dopo anni di conflitti, i militari russi ortodossi, finiti lì per ordini superiori, si riconoscono a vicenda con il contadino o la panettiera ceceni, musulmani, rispettandosi l’un l’altro. E’ l’indole sociale della specie umana. Ogni capetto, grande o piccolo, tende a dividere la gente creando fazioni in modo da avere il suo regno, piccolo o grande. Ma quando la gente viene a contatto si riconosce, si conosce e solidarizza. Ed è così che la Signora Peppina della Cecenia porta una pagnotta o un cocomero ai soldati russi del posto di controllo: così. Non per pagare un dazio, ma perché magari il soldato Ivan le ricorda il nipote mandato in Afghanistan trent’anni prima a morire per uno stato centrale distante e insensibile. E della stessa energia gode il viaggiatore passando da quelle parti. Che sia Romania, Cecenia, Uzbekistan, se arrivate in moto sarete visti come cavalieri sbucati da altre epoche, diretti discendenti di Tamerlano o Stefano il Grande ,a seconda di dove vi troviate. E capirete che quelli che i Media vi descrivono come pericolosi terroristi o criminali incivili, sono in realtà tranquillissima gente comune desiderosa di aiutarvi e farvi stare bene. Sarà così nei paesi islamici, in cui per ogni aiuto al viandante sono punti in più per il paradiso. E sarà così in Georgia, dove alla frontiera è scritto “L’Ospite è un dono di Dio”.
Un ultima considerazione sulla Meta:
non importa dove si voglia andare. La Meta è solo un pretesto per stare sulla strada e incontrare gente, prima che vedere monumenti. Che tu affronti il deserto del Gobi in solitaria, o ti faccia un giro in compagnia sugli altipiani di Arcinazzo nel weekend, se hai la capacità di aprirti a cosa ti circonda, tornato a casa avrai compreso un pezzo in più di te stesso e del mondo. Perché come Dante fa dire a Ulisse nella Divina Commedia fummo fatti “per seguir Virtute e Canoscenza”.