In questo momento dovrei scrivere un comunicato ufficiale sul prossimo viaggio che sto per intraprendere insieme alla mia compagna. L’adrenalina è tanta e siamo gasati più che a sufficienza. Ma di questo parlerò necessariamente in un altro post. Quest’articolo nasce sull’onda emotiva dell’incidente appena occorso a Tommaso e Francesca, due comaschi da pochi giorni partiti alla volta della Mongolia.
Lo dico subito: non li conosco personalmente, nè siamo in contatto sul social network. A dirla tutta non mi sono neanche eccessivamente simpatici, per via del modo di raccontare forzatamente poetico e dell’aura di avventura unica con cui, nei mesi precedenti alla partenza, hanno incensato il loro viaggio. Ma sono dei viaggiatori e stavano realizzando un sogno a lungo coltivato e già solo per questo meritano tutta la mia stima e rispetto. La loro disavventura non ha ancora una dinamica chiara: le poche notizie che si hanno sono confuse e contraddittorie, la foto che sta circolando dell’incidente dice tutto e niente sull’accaduto.
La fine del loro viaggio mi ricorda immediatamente la fine del viaggio di Stefano Pettinari alla volta di Samarcanda. Ho visto il video girato dalla sua action camera e sono uscito dall’ospedale quasi in trance. Il suo è stato un incidente davvero stupido, come spesso accade nei lunghi viaggi. C’era un camion enorme che entrava in strada e lui non l’ha visto, preso com’era dal pensiero di attraversare una terra in conflitto (l’Ucraina), dalla tabella di marcia da rispettare, dal pensiero di come si sarebbe comportata la Polizia di frontiera e altre cose di questo genere. Non voglio fare processi né dire come ci si dovrebbe comportare. Piuttosto mi viene da pensare che cadiamo tutti nello stesso errore.
A mio avviso abbiamo messo troppa poesia nel viaggio in moto.
A furia di sognare una fuga dalla vita su due ruote, dimentichiamo troppo spesso cosa quella fuga comporta. La foto di una tenda al tramonto nella steppa fa sbavare tutti noi, ma a nessuno viene in mente il numero e la qualità di bestemmie necessarie a raggiungere quella steppa. A nessuno viene in mente il caldo che fa, la strada di merda, i pericoli della stanchezza.
Qualcuno disse a Moroboshi, il fondatore di SporcoEndurista.it, che fare il motoviaggiatore richiede livelli di attenzione superiori perfino a quelli di un cecchino. Ed è vero: dall’alba al tramonto devi tenere gli occhi fissi su strada, sentire le reazioni della moto al fondo che cambia, contrastare i colpi di vento, il sole in faccia, reagire rapidamente ai cambi di assetto dovuti agli inevitabili spostamenti del passeggero. La poesia e un maledetto senso di onnipotenza ci fa pensare che tappe di 800 chilometri siano tranquillamente alla nostra portata ma, cazzarola, non è così.
Non si può stabilire di fare una cavalcata di quasi mille km al giorno senza che accada nulla. Questi errori li facciamo tutti, in viaggio, e se siamo a raccontarli vuol dire che ci è andata bene. Vi chiederete che senso abbia quest’articolo. Boh? me lo chiedo pure io, francamente. Forse mi sono cacato sotto al pensiero che possa succedere anche a noi. Forse mi è salita l’ansia della responsabilità per il prezioso carico che avrò in sella. Forse è solo rabbia nel vedere l’altrui sogno infranto, che sia quello di un amico o di due sconosciuti poco importa.
RImane solo da sperare che a Tommaso e Francesca vada bene com’è andata a Stefano, ancora convalescente ma più felice di quando è partito per la botta di culo avuta. E spero che la memoria di questi fatti non mi abbandoni prima della fine del prossimo viaggio, ché la poesia è importante ma, cazzarola, l’asfalto è duro.