Da quanto mi aveva detto chi tornava da un viaggio in India mi aspettavo qualcosa dall’impatto devastante appena entrato. Invece no: sarà stato il training nel traffico di Lahore o la sua sovrappopolazione, o tutta l’esperienza pakistana ma la sensazione all’ingresso nel secondo paese più popolato al mondo mi ha dato un certo senso di tranquillità.
Siamo riusciti a varcare il border tre minuti prima della chiusura, ogni giorno accompagnata da una cerimonia ultranazionalista in cui le guardie dei due paesi eseguono una coreografia minacciosa e arrogante l’uno nei confronti dell’altro, a uso e consumo di turisti e ultrà dei rispettivi paesi. Gli spalti stanno proprio in mezzo ai due cancelli e noi varchiamo quello pakistano con tutta gli spettatori già pronti per lo spettacolo.
Tra loro c’erano anche Tino e Huber e quest’ultimo ha immortalato lo scompiglio creato da due cazzoni che varcano il confine in moto tra l’agitazione delle guardie di frontiera. Sul lato indiano ci abbiamo messo più tempo, avendo dovuto aprire tutti i bagagli, con Peppina trattenuta a stento dall’azzannare il coccolino alle guardie rincoglionite che si limitano ad ispezionare le borse solo in superficie, col solo risultato di rovinare il duro lavoro di packing operato dalla mia Signora poche ore prima.
In India, apparentemente un Paese più libero
Lo shock vero, per me, è stato appena uscito dal cancello della dogana, quando a cerimonia finita una donna si è avvicinata chiedendo di farsi una foto insieme al centauro. La prima di una folla che rapidamente si accalca per lo stesso motivo e che fa intervenire le guardie per sollecitarci ad andar via. Dopo tre mesi di censura alle iniziative femminili la cosa mi lascia non poco interdetto e imbarazzato. Ed è una bella sensazione, soprattutto per Peppina, vedere donne alla guida di uno scooter, con la testa scoperta e abiti che mostrano il corpo, ognuna vestita come le pare. Dopo due mesi di repubbliche islamiche ci sembra la terra della libertà individuali. Ma scopriremo che non è così nei giorni a venire.
Mi avevano detto che se in Pakistan era difficile guidare, in India sarebbe stato un manicomio, ma i trenta chilometri che portano ad Amritsar scorrono lisci. Inizio a smadonnare seriamente quando imbocchiamo le viuzze che portano all’hotel che si trova nel bazar dei gioiellieri, con Sofia troppo ingombrante tra carretti a pedali, motorette e vacche.
Amritsar, la città dei Sikh
Rimarremo lì tre giorni a prendere un po’ di respiro, finendo di metabolizzare il Pakistan e facendo tentativi di confronto tra questo e quanto riusciamo a vedere dell’India.
Il nostro è ormai definitivamente un viaggio tra le religioni: dopo due mesi tra le varie correnti dell’Islam ci ritroviamo nella città sacra dei Sikh, che praticano una religione abbastanza recente creata in tre secoli di predicazioni di un numero ristretto di guru. Per quanto ne so i principi fondamentali sono tre e quello che mi piace di più è la condivisione col popolo di quanto guadagnato col lavoro onesto. Ma anche l’uguaglianza tra uomo e donna e il ricorso alle armi come ultima chance (e non come soluzione principale) hanno la loro importanza.
I Sikh sono immediatamente riconoscibili, almeno gli uomini: per loro c’è l’obbligo di portare sempre il turbante e non tagliare mai barba e peli vari. Mi viene subito in mente tutta la riprovazione di parte dell’occidente sul velo delle donne islamiche, mentre questi che schiattano di caldo (ché in Rajasthan fa caldo, eh!) con la testa coperta non se li incula nessuno.

Un altro principio è il divieto di qualsiasi intossicante, come fumo e alcol e questo divieto si applica rigorosamente dentro e tutt’intorno al Tempio d’Oro, una piccola cittadella con le sue mura dentro la città di Amritsar, con al centro un tempio dorato specchiato in una grande vasca d’acqua sacra. La contraddizione è evidente: in una città intossicata dai gas di scarico, invasa dalla munnezza divorata da vacche e tori liberi e centinaia di cani randagi o che brucia in piccoli roghi, fa ridere il divieto di fumare anche a duecento metri dal Tempio.
Ma questa è, e tocca starci. La cosa che più mi pesa, da carnivoro convinto e praticante, è il divieto di mangiare carne, applicato in tutta la città e buona parte del Punjab che abbiamo attraversato. La cucina Sikh è a base di vegetali, ma in giro ci sono tanti panzoni a causa dell’eccessivo condimento dei piatti: non avranno problemi per il fumo di sigaretta, ma secondo me hanno i trigliceridi a palla.
Il Tempio d’Oro dei Sikh
In pieno contrasto con la città circostante, il tempio è pulitissimo e ci si entra a piedi nudi e le scarpe, assolutamente vietate, si lasciano in uno dei tanti depositi distribuiti ai diversi ingressi. Il tabacco, invece, non deve proprio entrare nel perimetro sacro: all’entrata della grande vasca una pseudo-guardia mi chiede se ho tabacco con me. Io, che sono un gran furbone, gli rispondo di sì. E non va bene. Al deposito scarpe, dove vorrei lasciarlo, mi guardano schifati. Lo devo portare fuori, quindi lo imbosco dietro un vaso, attento a che nessuno mi veda.
Ogni settore è separato dall’altro da uno scavo in cui scorre acqua nel pavimento in pietra. La musica è parte fondamentale della liturgia e dell’ambiente. Entrambi a testa coperta assistiamo a una funzione in cui un guru recita qualcosa di melodico alternato a dei mantra ripetuti dai fedeli, uomini e donne insieme ma separati per sesso. Mentre Peppina si intrattiene con i bambini, un barbuto cerca di spiegarmi che stanno pregando il Creatore, che è uno solo come per Cristiani e Musulmani. La fila per entrare nel cuore del Tempio è lunga ma scorrevole.
All’interno scopriamo che la musica in filodiffusione non è prodotta da un CD ma da musicisti in carne e ossa che suonano e cantano a ciclo continuo al centro della sala, separati da una balaustra dai pellegrini che si fermano per qualche minuto a contemplarli e lasciare un’offerta. Noi rimarremmo ad ascoltare i cantori, ormai quasi in trance o profondamente scoglionati non l’ho ben capito, ma una donna nel suo sari ci incita a continuare e lasciare posto a chi viene dopo.
Si prega, si legge, si medita ovunque
Le foto sarebbero vietate ma in realtà solo noi siamo sottoposti al divieto: gli indiani scattano a manetta con qualsiasi cosa. Dal piano terra alla terrazza il pavimento è costellato di gente assorta in preghiera o in meditazione, con una copia del testo sacro in mano o recitando a occhi chiusi. La fine del giro passa per un punto attrezzato per bagnarsi con l’acqua sacra del lago artificiale che qualcuno beve anche. Lasciamo il Tempio in silenzio, guardandoci intorno. Non ci sono preti, non ci sono altari. Non c’è peccato o espiazione.

Ogni posto è buono per pregare e qualcuno si ferma a onorare un guru barbuto che siede a gambe incrociate in una sorta di vetrina. Molti si inchinano o inginocchiano di fronte a lapidi commemorative di personaggi importanti per la comunità Sikh, molti dei quali militari. Un albero è sacro perché legato alla vita di uno dei guru fondatori della Fede. Chi si ferma a chiederci da dove veniamo lo fa con educazione e rispetto e senza la seccatura di volersi fare una foto con noi. Sappiamo che il tempio funziona ventiquattro ore al giorno tutti i giorni, dando ospitalità e pasti gratuiti ai pellegrini. Decidiamo di passare dalla mensa comune, un po’ per il gusto di scroccare un pasto e un po’ per curiosità, lasciando comunque un’offerta all’ingresso.
I Sikh e la Mensa Comune. La prima immagine forte del viaggio in India
La mensa è un grande stanzone le cui navate vengono occupate a rotazione: vengono stesi dei tappeti a nastro dove ci si siede tutti insieme per mangiare il cibo che viene versato a scodellate rapide da un volontario. Si finisce più o meno tutti insieme, mentre un altro volontario è già munito di straccio per pulire rapidamente il pavimento della fila, mentre i nuovi arrivati siedono nella fila successiva. Un po’ come nelle colture a rotazione, dove un terreno per volta viene lasciato a maggese.
Si portano le scodelle vuote nella zona lavaggio sul retro, che sta vicino a quella di preparazione. Ci troviamo gente di ogni reddito che prepara verdure, cucina e lava piatti in una sorta di catena di montaggio che, secondo la dottrina, serve a sviluppare l’umiltà, il senso della comunità e l’uguaglianza di tutti gli umani di fronte al creatore.
E questa cosa mi piace assai. Noi non diamo il nostro contributo nella catena di montaggio, anche se ne avrei decisamente voglia: rimango imbambolato di fronte al fracasso del pentolame rapidamente ripulito a specchio da un piccolo formicaio. Non partecipo. Un po’ per godermi lo spettacolo, un po’ perché mi sento estraneo a questa comunità affascinante, saturo come sono dei principi occidentali. Siamo stati cresciuti col concetto di carità: ai poveri si dà gratis da mangiare per senso di pietà e misericordia, e qualcosa di simile avviene nell’Islam dove, comunque, sono tutti chiamati a dare qualcosa.
Un passo oltre in concetto di carità
In entrambe le culture la carità accresce il prestigio e il potere di chi la compie, con l’effetto collaterale di umiliare chi la riceve. Nel Sikhismo il discorso è diverso: sta a te collaborare con quello che puoi alla macchina collettiva. Che tu sia ricco o povero ti tocca comunque di tagliare cipolle. Se non hai dove dormire, dividerai la camerata col possidente. Se non hai di che mangiare c’è la mensa del tempio dove troverai anche chi ha una barca di soldi e insieme a lui laverai i piatti. Poi è chiaro: l’essere umano sempre quello è, e chi è potente se la sentirà sempre più calda di chi non lo è. Ma parliamo di principi e questo mi basta.
All’uscita dal perimetro sacro, dopo aver recuperato scarpe e tabacco, per pochi minuti mi convinco che basti davvero poco per vivere, ma il mio fricchettonismo è subito stroncato dall’immagine dei senzatetto che si preparano per la notte sotto il portico della banca.
Primi incontri
L’ultima sera, mentre cerchiamo tra le viuzze la strada per il posto dove abbiamo mangiato ogni giorno, incappiamo in una festicciola di pre-matrimonio. Veniamo subito accolti dopo esserci affacciati timidamente allo stretto e squallido cortile. Le donne ballano musica tipo bollywood, vestite in abiti coloratissimi, divertendosi a scimmiottare passi sensuali, coinvolgendo Peppina nelle danze.
Ci arrivano dei fritti e due bicchieri di Whisky & cola, alla faccia del divieto sugli intossicanti. Gli uomini protestano: è il loro turno di ballare. E loro sono molto più caciaroni e testosteronici, ché sembra di stare in un pogo. Qualcuno lancia soldi in aria che i ragazzini subito raccolgono. Poi vengo lanciato in aria anch’io. Stiamo una ventina di minuti a chiacchierare con i vari capifamiglia, continuando la carrellata di fritti e whisky fin quando non ci dicono che è ora di andare: di notte è pericoloso per l’uomo bianco occidentale. E noi andiamo. La festa di matrimonio più breve della mia vita.
Mi aspettavo cose diverse, ma i tempi delle repubbliche islamiche sono finiti. Qui inizia un altro mondo ancora. È ora di proseguire il viaggio in India.