Da Buenos Aires siamo partiti in direzione sud con poca convinzione. Dopo venti e più giorni di stop tra la Thailandia e la capitale sudamericana avevamo quasi perso l’attitudine a decidere una strada certa, facoltà peraltro labile già prima di questo raid. A nord ci sono le cascate di Iguazù e tutto il resto del Sud America, c’è il caldo delle terre prossime all’equatore e qualche ora di luce in più ogni giorno. Ma sapere che a sud c’è un posto che chiamano “la Fine del Mondo” ci intrigava assai a dispetto dell’inverno australe ormai alle porte.
Neanche le notizie catastrofiche di una Patagonia coperta dalle ceneri del vulcano Calbuco, in piena eruzione dal giorno del nostro sbarco in Argentina, ci hanno intimorito più di tanto. Ci siamo detti “Iniziamo a scendere e vediamo com’è: male che va torniamo indietro”. Avevamo un botto di informazioni da parte di Paolo Pastore e Fabio Stojan, due motoviaggiatori di recente transitati in Patagonia, per cui potevamo allestire rapidamente un piano B in caso di avversità.
Patagonia in moto. La pianura infinita
Lasciamo Buenos Aires con uno stato d’animo a metà tra lo scalpitante e il pigro: abbiamo bisogno di rimetterci in strada ma una pioggia fine e fitta, di quelle che ti inzuppa al primo semaforo, ci fa aspettare nella speranza che scampi un po’. Dopo almeno un’ora di tangenziali e svincoli sbagliati, in mezzo a una pianura desolatamente verde, vediamo il primo cartello per la Ruta Nacional 3, la striscia ininterrotta d’asfalto che dopo 3.000 e rotti chilometri raggiunge Ushuaia, che dicono essere la città più a sud del mondo. La pampa è bella e sotto il cielo plumbeo dell’inverno in arrivo ha un fascino non da poco. Immense proprietà, delimitate da esili recinzioni in filo spinato e con un cancello in legno più o meno decorato, racchiudono mandrie di vacche che neanche sanno di vivere in cattività per quanta terra hanno a disposizione.
La pampa è bella ma dopo due giorni viene da spararsi nelle palle per la noia. Inizio a chiedermi che senso abbia farsi 400 e rotti chilometri al giorno di rettilinei interminabili, incontrando due o tre persone al giorno che oltretutto hanno almeno un nonno italiano o addirittura calabrese. In Asia c’era un piccolo mondo da scoprire ad ogni sosta, e dietro ogni curva qualsiasi cosa poteva succedere. Qui non ci sono curve e sembra non esserci alcuna scoperta antropologica da fare, né il brivido della lingua esotica: se prima era Peppina a parlare una lingua tutta sua con la quale farsi capire, ora tocca a me inventarmi qualcosa.
Tra lingue nuove e santi laici
Tiro fuori il Toteño, un mischione calabro-spagnolo che tutto sommato funziona anche se gli interlocutori mi guardano perplessi, divertiti o irritati a seconda del grado di pazienza o dei cazzi personali che gli girano in testa. Il paesaggio si fa più interessante poco prima di Viedma, sul Rio Negro, con qualche curva e gruppi di alberi ma dura poco: appena passato il fiume ci rendiamo conto di essere finalmente in Patagonia. Una distesa sconfinata di arbusti che punteggiano fitti un suolo brullo dal quale, di tanto in tanto, affiorano pozze d’acqua anche di dimensioni considerevoli, talvolta con formazioni saline. Il nastro d’asfalto della Ruta 3 corre veloce a tagliare in due il nulla, seguendone i cambi di pendenza.
Ci si trova così a percorrere lanciati lunghe salite, lasciando l’acceleratore per l’incanto metafisico del panorama visibile in sommità che sempre urla a gran voce che qui, e la cosa ci piace tanto, non c’è nulla di nulla. La dimensione surreale di questo deserto diventa mistica quando, nelle piazzole di sosta o nelle scarpate, si incontrano le cappelle dedicate al Gauchito Antonio Gil o alla Difunta Correa, due santi laici molto venerati in Argentina e Cile. Da lontano sembrano i resti di un pic-nic maleducato, poi ci si avvicina e si capisce che le bottiglie d’acqua e i panini imbustati sono offerte dei devoti, alcuni dei quali lasciano dei veri e propri ex-voto.
Patagonia in moto. La stagione è importante
Fin dal primo giorno facciamo i conti con la carenza di stazioni di servizio mentre il proverbiale vento che spazza via tutto ci ha graziati e la temperatura si è mantenuta a livelli accettabili, tanto da convincerci a dormire in tenda. Ci sveglieremo sferzati da fredde raffiche che nei cento chilometri successivi diventeranno una bufera di pioggia orizzontale. Ci dicono che più a sud sta nevicando, ci parlano di strade chiuse e mezzi in difficoltà. Scatta il piano B: stop per la notte a Puerto Madryn per andare l’indomani verso San Carlos de Bariloche e risalire a nord. Poi succede che, mentre viaggiamo a 45 gradi sotto la pioggia gelida, ci raggiunge Mauro Dagna con la sua motocafettera, un’Africa Twin modificata da Boano, recuperando il distacco di un giorno che ci separava: avevamo provato a incontrarci nella capitale, ce l’abbiamo fatta nel mezzo della bufera patagonica.
Dopo una chiacchiera a un tavolo dell’unica locanda nel raggio di almeno duecento chilometri, decidiamo di proseguire insieme fino a Ushuaia: i camionisti provenienti da sud dicono che è buono e non c’è neve. Non ci mettiamo molto a decidere unanimamente a fermarcì lì per la notte, chiacchierando con i proprietari e i camionisti di passaggio intorno alla stufa a legna rovente.
Capiamo subito che qui più che altrove le informazioni di chi percorre la strada possono essere diverse e contrastanti. E capiamo anche che ancora più variabili e imprevedibili sono le condizioni meteo: il tramonto è di un rosso intenso, di quelli che qui fanno sperare in una giornata limpida e ventosa e così sarà per pochi giorni, quelli che ci bastano ad arrivare in Tierra del Fuego al ritmo di 600 km quotidiani. Visti i prezzi degli alloggi e la scarsità di gente per strada ci giochiamo la carta del Couchsurfing, che avevamo lasciato da parte dopo l’Iran.
L’ospitalità sincera degli argentini
E l’ospitalità degli argentini è stata grandiosa. C’era da immaginarselo: agli argentini piace molto la chiacchiera a ruota libera su qualsiasi argomento, e avere tre forestieri con storie interessanti non può che essere una buona occasione per conoscere qualcosa di un mondo per loro difficile da visitare. Mi renderò pian piano conto che, nonostante discendano da italiani ed europei in generale, gli abitanti di questa parte di mondo regalano un’esperienza antropologica di tutto rispetto. Su tutto mi è risultato sorprendente il buonumore nonostante la vita dura in un posto dove non c’è nulla se non materie prime, pecore e petrolio.
Mi ha anche sorpreso l’unanimità di pensiero rispetto alla situazione politica ed economica del paese, della quale vi parlerò più avanti. La Patagonia per noi è stata questo: gente a cui piace chiacchierare amabilmente davanti a un Fernando (Fernet e Cola, che si beve in quantità industriali) in una casa coi riscaldamenti sempre a manetta, discendenti di gente arrivata qui da tutto il mondo, soprattutto dall’Italia, a cercare una possibilità in una delle terre più toste del pianeta, ma di sicuro più promettente di una terra natia devastata da guerre e miseria.
Tierra del Fuego, ma che freddo
Abbiamo diversi motivi per raggiungere Ushuaia prima possibile. Oltre al poco tempo a disposizione c’è l’inverno australe le cui avvisaglie sono sempre più evidenti: il tempo è sereno e proprio per questo la temperatura si abbassa sempre di più. L’ultima tappa prima della Tierra del Fuego è Rio Gallegos dalla quale, in un colpo di genio, decidiamo di partire all’alba, attraversando la frontiera tra Argentina e Chile nel paesaggio surreale di una landa arida completamente ghiacciata. Il freddo è davvero tanto e la mia signora mi abbandona per un passaggio in auto. La cosa non mi dispiace affatto visti i cento e più chilometri di ripio (sterrato) divertente e veloce in territorio cileno, che con il Dagna percorriamo spediti come fossimo a moto scarica.
La Isla Grande de Tierra del Fuego, divisa a metà tra Argentina e Chile, ha un paesaggio più variegato del resto della Patagonia: la strada corre sinuosa tra colline che iniziano timidamente a verdeggiare tra le spianate aride. L’atmosfera di fine autunno è però sostanzialmente lugubre per le nuvole dense e minacciose che rendono ancora più scure le distese di alberi morti che si alternano alle praterie e ai pascoli. Da Rio Grande a Ushuaia, l’ultima tappa, sono meno di duecento chilometri ma arrivano voci di neve e gelate.
Tornare indietro ora non avrebbe senso, perciò decidiamo di andare fino a Tolhuin e lì chiedere informazioni sulla strada. Alla Panaderia dove tutti si fermano, la cui vetrina è tappezzata dagli adesivi di motoclub e viaggiatori vari, Mauro attacca bottone a destra e a manca per avere informazioni sulla percorribilità. Si può fare: la strada è pulita e la neve è solo ai bordi. Fa freddo ma chi se ne frega, ne abbiamo già preso tanto.
El Fin del Mundo
Arriviamo a Ushuaia gongolanti e induriti dal gelo con un po’ di orgoglio per essere gli unici motoviaggiatori nei paraggi e riuscendo a trovare, sempre grazie alla parlantina di Mauro, un ostello caldo e a prezzo ragionevole. La conferma che la stagione sia decisamente quella sbagliata arriva il giorno dopo, quando dobbiamo rinunciare all’ingresso al parco nazionale perché la sterrata è completamente gelata, ripiegando per un giro in barca nel canale di Beagle a vedere cormorani e leoni marini. Latitano invece i pinguini, migrati in Brasile perché ora qui è troppo freddo, facendoci sentire anche più cazzoni di quanto effettivamente siamo.
Rimarremo solo un giorno a Ushuaia: dobbiamo scappare dalla nevicata imminente che ci bloccherebbe lì a tempo indeterminato. Ma vogliamo anche fuggire da una delle città più care di tutta l’Argentina. Ci concederemo però un piccolo lusso che solo qui si può assaporare: insieme a Mauro mangeremo una gigantesca centolla da due chili. Si tratta di un granchio che vive solo nelle acque gelide della Tierra del Fuego, una delle cose più buone che abbia mai assaporato.
Ci è costata quanto tre pieni di benzina, ma ‘sticazzi: si campa una volta sola.