Girare per il Laos in moto è un esperienza gratificante sotto tanti punti di vista. È un paese così bello che si corre il rischio di dire enormi banalità a cui è difficile credere se non ci si è passato un po’ di tempo.
Ci abbiamo trascorso un mese, volato via rapidamente, di morbida avventura tra strade di montagna e fiumi di varie dimensioni, notti passate in capanne di legno e bamboo e monasteri buddisti. Uso il termine avventura, credo non in maniera impropria, perché ci siamo mossi a grandi linee e direzioni generiche senza sapere quasi mai dove avremmo passato la notte, ma con la certezza che un posto dove piantare la tenda senza seccature l’avremmo trovato di sicuro. E così è stato quasi sempre. E l’avventura è stata morbida perché, in un mese di permanenza, non abbiamo mai una incontrato gente che potesse sembrarci in alcun modo pericolosa.
Anche qui, ma molto più che negli altri paesi visitati finora, abbiamo lascato perdere i monumenti, preferendo perderci tra facce che parlano una lingua che non c’entra nulla con la nostra, riuscendo a comunicare attraverso due o tre parole chiave, attraverso le quali siamo riusciti ad entrare nelle case della gente e a passare un po’ di tempo insieme. Ma non siamo stati noi quelli bravi: è semplicemente la naturale propensione di questo popolo ai rapporti placidi e rilassati.
Same same but different
Inizio dalle strade, sgarrupate e polverose, che abbiamo attraversato per muoverci da nord a sud.
Appena varcata la frontiera, dopo un’oretta e mezzo trascorsa a compilare moduli, ci fiondiamo in direzione nord, verso Luang Namtha. La differenza con la Thailandia è subito percepibile dal fondo stradale, discretamente sgarrupato quando l’asfalto è presente, tanto che lo preferisco decisamente quando è sterrato. Lungo la strada, e sarà una costante per tutta la parte nord del paese, sorgono villaggi di palafitte in legno e bamboo. I bambini giocano semisvestiti o completamente nudi, ma sanno come regolarsi con i veicoli in transito. In compenso chi ci fa veramente rischiare ogni giorno sono le galline, le più stupide viste in tutta la mia vita di viaggiatore.
Un vagare senza mappa
Riguardo alla pianificazione del percorso, stavolta abbiamo superato noi stessi: non abbiamo neanche per un momento posseduto una mappa cartacea, affidandoci alle mappe digitali che, anche in questo paese, ci hanno portato verso sterrati e guadi. Andando verso Phongsali, sul confine cinese, Mr Garmin ci portava ad attraversare una ventina di chilometri di Cina. Tornati indietro abbiamo beccato una sterrata di una settantina di chilometri, alla quale abbiamo rinunciato dopo una trentina.
L’arteria stradale più importante del paese è la statale 13, che abbiamo percorso praticamente per intero e che, nel suo tratto nord fino a Luang Prabang, è una vera pista sterrata che farebbe sbavare ogni endurista. Anche gli smanettoni però avrebbero le loro soddisfazioni, ad esempio sulla statale 7 che porta alla regione montuosa al confine col Vietnam, bombardata pesantemente dagli americani negli anni ’60. Dico avrebbero, perché le condizioni del manto non sono da velocità e spesso dietro i tornanti ci sono camion che arrancano sputando nuvole impenetrabili di fumo nero.
Sul Bolaven Plateau gli ultimi 100 chilometri di sterrata
L’abbiamo percorsa fino a Phonsavan, in mezzo alla Piana delle Giare. Tutti ne parlano come di un luogo dal fascino misterioso per via dei gruppi di giare in pietra di cui sono disseminati i campi di riso, completamente inariditi durante il periodo della nostra visita. Una roba da Kazzenger, visto che le cave della materia prima sono molto lontane e, dice, non si capisce come l’abbiano portata fin lì. Sarà che dopo sette mesi abbiamo fatto il callo a paesaggi e cose fuori dal nostro usuale, ma non ci siamo entusiasmati più di tanto. La strada e la gente incontrata per mercati ci hanno confortato per il tempo impiegato ad arrivarci.
La capitale, Vientiane, l’abbiamo abbandonata dopo una notte per il caldo, così afoso da farmi collassare per strada dopo neanche un chilometro di passeggiata. Da lì in poi la strada è stata quasi sempre asfaltata ma noi, non contenti di tutto questo lisciume, abbiamo girato verso il Bolaven Plateau, un altipiano quasi interamente coltivato a caffè. Qui, tra l’ospitalità dei nativi e bagnetti presso cascate varie, ci spariamo l’ultimo offroad di un centinaio di chilometri.
Le quattromila isole
La strada che attraversa la riserva di Don Hua Sao è interamente sterrata e costellata di guadi di diverse dimensioni, peraltro molto affollati di veicoli di qualsiasi tipo. Sarà un giorno di goduria pura per me, un po’ meno per Peppina che non ne può più di sgarrupamenti stradali, almeno fin dalla sterrata per Phongsali; la strada non è difficile, con un brecciolino ricoperto da sabbia fine che per lunghi tratti diventa farina rossa.
Gli ultimi giorni li passeremo a Si Phan Don, le quattromila isole, una sorta di delta interno del Mekong in cui, nella stagione secca, affiorano migliaia di isolotti. Qui il ritmo della vita è davvero lento, scandito com’è dai tempi della pesca all’alba. Tutto o quasi si svolge entro le otto/nove di mattina: poi fa troppo caldo e anche il mercato grande chiude. Rimane aperto solo quello sul lato cambogiano, in cui i negozianti sonnecchiano cercando di stare più immobili possibile.
Il Laos è il posto più tranquillo del mondo, da vivere con tranquillità e lentezza. In questo paradiso del tempo perso, gli unici a stressarsi siamo stati noi, che abbiamo iniziato a realizzare che dovevamo darci una mossa a decidere quando e con chi partire per il Sud America. Da Luang Prabang in poi è stato un crescendo di agitazione, culminata a Si Phan Don durante una giornata intera buttata appresso a carte di credito che non funzionavano e prezzi fluttuanti delle aerolinee. Pensavamo di essere gli unici, ma l’incontro con una coppia di svizzeri, anche loro impegnati in un giro del mondo, ci ha fatti ricredere. Esattamente le stesse indecisioni e la frustrazione del tempo che passa.
Saranno un po’ ingordi di fancazzismo, ‘sti giramondo?
