L’Argentina del Nord è qualcosa di completamente diverso dal resto del Paese. Se il sud è fatto di interminabili pianure desertiche, qui il paesaggio si fa molto più articolato. Ci sono coltivazioni, ci sono villaggi a poca distanza l’uno dall’altro. O almeno è così intorno alla cittadina di Tucuman, dove abbiamo dovuto interrompere il viaggio. Ci sono tornato due mesi dopo, atterrando allo stesso aeroporto dopo due giorni su tre aerei, partito da Lamezia Terme in un’afosa giornata di Agosto. Ci sono tornato perché c’era Sofia da riprendere e riportare a casa. Potevo andare dritto a Buenos Aires, metterla su un cargo e ritornare in Italia. Però chi ora non c’è più mi ha insegnato che le cose iniziate vanno portate a termine nel migliore dei modi possibile.
Mi ero ripromesso di vedere e raccontare un pezzo di mondo quanto più nelle mie capacità e, anche se la motivazione è stata duramente minata, non posso non continuare. E così, con quel magone in corpo che appesantisce cuore e mente, sono tornato a casa di Joaquin, il Chico de Oro che si è preso la briga di tenermi la moto al sicuro a tempo indeterminato la sera stessa che arrivammo, io e Peppina, con la faccia di chi ha tutt’altro in testa che non la socialità e i racconti di viaggio.
Argentina del Nord. Los Amigos Tucumanos
Avevamo salutato Yerba Buena, frazione di San Miguel de Tucuman, in una giornata di sole caldo con l’inverno ancora lontano. La ritrovo sotto un cielo di piombo e densa d’umidità che entra nelle ossa. Non sarà la città più fredda del mondo, ma per me che due giorni prima stavo in spiaggia lo è eccome. Joaquin mi abbraccia appena scenso dal taxi che ho condiviso con una signora incontrata in aeroporto e, prim’ancora che finisca di sistemare le borse in un posto dove non danno fastidio, mi porta fuori a vedere Sofia che sta lì, coperta dal telo che usiamo sotto la tenda, ormai color grigio terra. Avevo dimenticato di staccare la batteria prima di partire ma la cosa non l’ha turbata più di tanto. Parte un po’ tentennante al secondo colpo facendoci esultare entrambi.
Già che s’è accesa, dopo un caffè lo accompagno a prendere il suo scooter in officina, per poi andare alla ricerca di un paio di gomme nuove per me e qualcuno che mi monti il disco freno posteriore che mi sono portato dall’Italia. Un meccanico scrauso ma preparato sull’enduro ci manda da Italmoto, il cui nome la dice lunga sulle origini del proprietario. E le grate installate sul banco la dicono lunga sulla sicurezza del sobborgo.
Esteban è di padre pugliese e ci prendiamo subito in simpatia. Le gomme decenti più abbordabili che ha sono un paio di Pirelli MT60 che pagherò in dollari blu, per me un affare e per lui pure. A montarle mi accompagnerà l’indomani Tachi, il suo aiutante di poche parole con in faccia l’espressione costante di chi sta per darti un cazzotto sul mento, ma che di tanto in tanto si prodiga in luminosi sorrisi paciocconi che esplodono come raggi di sole tra le nuvole scure.
L’indomani pomeriggio scatta l’operazione “Rueda”: io e Tachi portiamo la moto dal gommarolo, smontiamo la posteriore e ritorniamo col cerchio da Italmoto. Lì Esteban, dotato delle chiavi giuste e di tutto il necessario, sostituisce il disco. Riportiamo tutto dal gommarolo per il montaggio della gomma nuova, non prima che io abbia provveduto a installare due belle pastiglie organiche nuove nuove. A ruote fatte concludiamo con birra, patatine e chiacchiere sui viaggi miei e suoi, che in passato ha girato in lungo e in largo l’Italia, rimastagli nel cuore non solo perché terra d’origine.
Esteban mi spiega la strada per raggiungere il Paso de Jama, mi illustra la situazione delle stazioni di rifornimento. E mi regala una busta di foglie di coca, insegnandomi come utilizzarle. Joaquin lo becco a casa, tra una riparazione mia e un suo impegno, diviso com’è tra università di giorno e lavoro di notte. La casa in cui vive, più che vecchiotta, trasuda umidità da ogni angolo: pare che abbia assorbito ogni goccia dell’alluvione che si è abbattuta sulla provincia un paio di settimane prima. Per questo motivo tiro fuori dalla borsa stagna il sacco a pelo, che sta insieme alle pentole.
Appena apro la borsa mi assale un odore da fiatella di cirrotico cronico: nel caos della partenza la mia Signora ha dimenticato nel pentolame una testa d’aglio, marcita impietosamente fino a richiedere l’intervento della scientifica per l’identificazione. Mentre ne scrivo, in Bolivia un mese dopo, l’aroma malaticcio non ha ancora abbandonato la borsa e il suo contenuto. Un chiaro tentativo di sabotaggio di Peppina, casomai facessi entrare qualche esponente del gentil sesso nella nostra tendarella. Furba ‘a fimmina!
Verso Salta e Jujuy. Nel cuore dell’Argentina del Nord
Riorganizzare il contenuto delle valige non è facile. Per un anno se n’è occupata la Signora e io mi ritrovo un po’ arruginito in quest’arte che ha del misterioso. Finirò di sistemare tutto e caricare la moto alle undici di mattina, consapevole del fatto che le cose, per legge entropica e principio di indeterminazione, troveranno il loro posto nel tempo e con l’uso, incastrandosi da sé nel migliore dei modi. Abbracciato Joaquin la mattina presto, ripasso a salutare Esteban e Tachi. La morbida sensazione di aver trovato nuovi amici fa a cazzotti con la smania di andare e fare strada.
Anche perché la giornata è uggiosa e di partire sotto la pioggia non ho nessuna voglia. La prima destinazione è la città di Salta, dove mi aspetta Juan, couchsurfer che si era offerto di ospitarci già due mesi prima. Per arrivare a Salta ci sono due strade: una statale asfaltata e veloce che corre in piano, senza nulla da vedere e discretamente pallosa a detta dei miei amici, oppure quella più lunga che si inerpica tra i monti e il cui paesaggio è decisamente entusiasmante, sempre a detta loro.

Di entusiasmante ci sarà ben poco per molti chilometri, quelli che salgono tra i tornanti nella nebbia fino ai 3020 metri slm del passo Abra del Infiernillo. Non nevica, ma fa un freddo cane e un velo di ghiaccio ricopre le piante. Ma oltre il passo tutto cambia: mi ritrovo di fronte a una valle arida cosparsa di enormi cactus, con la strada che serpeggia seducente fino al fondo, quasi facendosi largo tra le piante grasse (e grosse).
Cactus e deserto
Le costruzioni del pueblo in cui mi fermo per un boccone, Amaicha del Valle, sono tutte in adobe, c’è un museo etnografico e le decorazioni di qualsiasi cosa hanno richiami al mondo che fu, quello degli indios pre-colombiani. Le facce iniziano a cambiare e da qui in poi i discendenti dei nativi si faranno sempre più numerosi. In questa terra sorvegliata da cactus giganti, la storia degli indios è stata diversa che nel resto del Paese.
Visito al volo le rovine di Quilmes, rasa al suolo dagli ispanici nel 1667 dopo una lunga resistenza. I suoi ultimi superstiti furono trasferiti con la forza a fondare un quartiere di Buenos Aires che ancora oggi porta lo stesso nome. All’ingresso viene indicato con orgoglio che per legge dello stato viene riconosciuta l’identità e il valore di questo popolo. Mi viene da chiedermi se la cosa sia giusta o meno e quanta ipocrisia ci possa essere in tutto ciò. Mi rispondo che l’oblio sarebbe peggio e questo fuga ogni dubbio.
Anche a Cafayate, il pueblo diventato la base turistica della zona, l’atmosfera che si respira è da film di Sergio Leone, anche se annacquata dalla presenza incombente dei turisti e delle attività a essi dedicate. Da qui partono i tour per la Quebrada de Las Conchas, una meraviglia geologica di rocce colorate che si estende per chilometri. In un colpo di genio la attraverso praticamente in notturna, essendo arrivato lì al tramonto che da queste parti è sempre accompagnato da un vento poco gentile.

Mi prenderei a schiaffi perché so di attraversare qualcosa di imperdibile senza vederlo e solo per non rimandare oltre l’appuntamento con una persona che da mesi rinnova il suo invito. Per poi sentirmi rispondere via messaggio “Ma quindi che fai? Vieni oggi o domani?” Per essere educato arrivo poco educatamente alle 11 di sera, con dodici ore di viaggio sul groppone, sbalzi di quota a cui ho resistito grazie alle foglie di coca di Esteban, e almeno tre variazioni climatiche.
Nonostante sia visibilmente sfatto, Juan vuole assolutamente che decida una delle varie opzioni che mi snocciola come fosse un tour operator. In realtà la cosa mi è molto utile, ma vorrei darmi un colpo in testa e cadere in coma per almeno dodici ore. Alla fine opto per andare a San Antonio de Los Cobres, sulla strada che segue e intreccia il tracciato della ferrovia ormai usata soltanto dai turisti. Forse dopo proseguirò per il pueblito di Iruya, ancora più a nord.
Cose che il tempo non cambia
Juan è stato di una gentilezza estrema. Ci aveva anche proposto, nel caso fossimo partiti da Salta, di tenerci lui la moto. La sua è una grande casa a tre livelli, con un garage molto ampio, regno incontrastato dei cinque cani di varia taglia che scacazzano ovunque, tanto che quando sono arrivato ho smontato direttamente le valigie senza neanche appoggiarle a terra per paura di schiacciare qualche profiterole, portandole nella mansarda dove ho dormito su per una ripida, stretta e cigolante scala in legno. Il letto è un multistrato di materassi cenciosi su cui è buttato un numero imprecisato di coperte tra le quali vive, suppongo, una colonia ben nutrita di acari. Misteri del Couchsurfing.
L’indomani sono tutti fuori casa molto presto. C’è solo la donna di servizio di chiare origini indie con cui scambio una chiacchiera amabile. Siamo nel 2015 ma la sostanza delle cose non sembra essere cambiata dal colonialismo: i bianchi hanno la casa grande, i creoli fanno gli sguatteri a chilometri dal loro pueblo in cui tornano una volta al mese per un paio di giorni. Parto dubbioso sul da farsi: andare davvero a San Antonio de Los Cobres o proseguire per Jujuy attraverso vegetazione e giungla. Opto per la prima incamminandomi su una sterrata veloce e divertente che segue il tracciato della ferrovia. Ancora cactus, sempre più grandi. Ancora vento che alza nuvole di polvere e sabbia, ancora villaggi indio rasi al suolo dagli spagnoli. In mezzo alla polvere, nel nulla, un gruppo di case porta l’insegna “Comedor”, mi fermo per mettere qualcosa nello stomaco.
Si sale di quota verso il nulla
Griselde, la proprietaria del posto con cui scambio quattro chiacchiere, sembra aver passato lì tutta la vita con la voglia di vedere il mondo, tante sono le domande che mi fa sul mio viaggio e sulle cose che ho visto. Contrariamente al mio solito, io domande non ne faccio: non voglio incrinare quel volto i cui lineamenti, un misto di mediterraneo e indio, raccontano tutta la storia di quella terra di conquista. Mi saluta dicendomi:
“ Se ripassi da qui mi porti un po’ di cioccolata? Mi piace tanto la cioccolata, ma qui non se ne trova!”.
Il vento è forte, la sabbia è tanta e la strada si arrampica fino a un passo a 4080 mt. Durante l’ascesa mi fermo un paio di volte nel tentativo di acclimatarmi, approfittandone per imboccare un po’ di foglie di coca. Qui il mal di quota si chiama Puna e il fatto di ascendere in moto rende la cosa particolarmente fastidiosa, visto che si sale rapidamente e senza accorgersene ci si ritrova sbomballati. Mi accorgo della pressione che diminuisce dal “pop” nei timpani e dalla sensazione di vuoto nella cassa toracica anche dopo i lunghi respiri che mi partono in automatico. Già solo scendere dalla moto mi fa venire il fiatone e inizio a sentire un discreto piombo al cranio, mentre la testa gira sempre di più.
San Antonio de Los Cobres si trova a 3.700 mt, una cittadina mineraria popolata da creoli e indios che passano le loro giornate nel nulla e nell’apatia che ne consegue. Decido di fermarmi per la notte visto lo sfattume: sono stati solo 120 km ma gli sbalzi di quota mi hanno massacrato. Incontro due motociclisti che mi suggeriscono l’Hostal de Las Nubes, dove alloggiano anche loro. È una casetta di un piano, con due camerate grandi con letti a castello, pieno di spifferi e, quel giorno, senz’acqua come tutta la zona periferica della cittadina. Delfina, la proprietaria india alta un metro e una noce e scura di pelle e capelli, ci osserva mentre mettiamo le moto davanti al banco della reception, seguendoci divertita e silenziosa durante le operazioni di manutenzione.
In viaggio con papà
Rodrigo e Juan sono padre e figlio di 46 e 20 anni. Se il giovane è affabile e umilmente eccitato per il primo viaggio in moto con papà, quest’ultimo ha i toni aristocraticamente scocciati dell’uomo vissuto che tante ne ha viste e fatte. Per lui la conversazione è una serie di aneddoti sulle sue imprese: guida a -20 su neve e ghiaccio, forature nel deserto insieme alla compagna, incidenti improbabili e, in genere, situazioni così assurde che è inevitabile pensare che la metà siano minchiate. Lui sa tutto e su tutto dà consigli, anche non richiesti e su cose banali. Si ridimensiona per un momento quando rispondo sinteticamente alle domande sul mio viaggio. Sgrana gli occhi, ha un tremito delle sopracciglia, dopodiché ricomincia sparandole ancora più grosse.
Ormai non so se sia colpa della puna o delle sue cazzate, ma sono preda di un mal di testa epocale misto a nausea che mi fa andare a letto alle nove, lasciando i miei compagni di viaggio alla taverna. Dico compagni di viaggio perché ho accettato di buon grado la loro proposta di andare l’indomani a Casabindo, un pueblo sperduto a quasi duecento chilometri dove a ferragosto si svolge una corrida popolare, con i tori per strada e i toreador che cercano di prendere l’addobbo tra le corna del toro per offrirlo in dono alla Vergine. È l’unica corrida che si svolge in Argentina, e non è nemmeno tanto crudele, visto che il toro non viene ucciso. E una botta d’antropologia così non me la voglio perdere.
Meglio soli che male accompagnati
Le dieci ore di sonno a stomaco vuoto e il pasticcone di ibuprofene hanno sortito il loro effetto, facendomi alzare fresco e pompato. Carichiamo le moto e partiamo alle otto e mezza. Il Veterano propone di fare la strada che costeggia la Salina Grande e da lì raggiungere Casabindo. Strada è una parola grossa: si tratta di una pista sterrata che attraversa un altipiano circondato dai rilievi delle Ande, in cui l’aridità regna sovrana. Di tanto in tanto qualche cartello indica la direzione di una qualche comunità india, di fatto una manciata di case di adobe con qualche animale che pascola annoiato. Si incontrano anche piccole estancias il cui unico segno di vita è il cane che ci abbaia contro.
Procediamo a distanze tali da non infarinarci con la polvere, cosa inevitabile quando incrociamo i grossi SUV che qui vanno per la maggiore. I problemi iniziano quando Father and Son capiscono che siamo andati troppo avanti. La mia mappa non è abbastanza dettagliata e il Veterano ne è completamente sprovvisto. La cosa che abbiamo è una mappa Google scaricata sul telefono di Juan, visto che il sottoscritto, causa malessere della sera prima, non ha caricato il percorso sul GPS.
Dobbiamo tornare indietro e prendere la strada che un cartello indica come la vecchia Ruta 40, anche se tutte le mappe indicano come tale un altro tracciato che sta oltre le montagne alla nostra sinistra. Individuato il primo bivio che abbiamo incontrato, mi lancio a 90 km/h per alleviare la noia, tranquillo del fatto che lì ci dobbiamo incontrare. Arrivo al bivio e aspetto. Una sigaretta, due sigarette, mezz’ora. Qualcosa non va. Temo si siano cappottati per il tracciato non proprio battuto. Torno indietro fino al cimitero in cui ci eravamo parlati l’ultima volta. Nulla: spariti nel deserto. Che abbiano girato prima o che siano tornati indietro poco importa: di fatto mi hanno mollato da solo nel deserto a 100 km dalla civiltà.
Mi incazzo ma me ne faccio rapidamente una ragione, decidendo di proseguire dritto per Casabindo, che però non raggiungerò mai. Il fatto è che, superata la Ruta 52, che attraversa la Salina Grande e porta al Paso de Jama, bisogna continuare su sterrate che da subito, e ce l’aveva detto anche la Polizia di San Antonio, si presentano cosparse di sabbia fina e farinosa: non proprio il massimo della sicurezza da fare in solitaria visto il carico. Oltretutto tra me e le suddette strade, c’è un fiume parzialmente gelato da guadare per una cinquantina di metri, il cui fondo è cosparso di sassi lisci e levigati.
Di andare avanti da solo per altri novanta chilometri in queste condizioni non me la sento proprio: rimanere affossato o rompermi una tibia su una sterrata dove non passa nessuno è la cosa da evitare nel modo più assoluto. E siccome il ferragosto non mi ha mai portato bene (era ferragosto quando rimasi infangato nel deserto in Kazakhstan), preferisco attraversare la Salina e andarmene sconsolato alle Termas des Reyes, vicino a San Salvador de Jujuy, a 1200 mt di quota.
Qui smaltirò la delusione nell’acqua calda delle terme dei poveri, ché il megahotel costruito sulla sorgente costa decisamente troppo. Monterò la tenda sul retro della casa dei proprietari e passerò la serata a chiacchierare con Diego, un insegnante di educazione fisica appassionato di viaggi che si prodigherà in consigli su Perù e Bolivia. Sarà lui a convincermi definitivamente che valga la pena di andare a Iruya, verso la quale mi dirigerò l’indomani dopo una notte freddina ma sopportabile. In tenda i pensieri sono tanti, ma l’ultimo prima di addormentarmi è un sano vaffanculo al Veterano dei Viaggi che non ha saputo rispettare la prima regola di un viaggiatore:
Non si lascia nessuno da solo nel deserto. Neanche se ti sta profondamente sul cazzo.