Bene. Anche il Motodays 2014 è finito e tocca scriverne qualcosa, se non altro perché stavolta non ci sono andato (soltanto) da visitatore. Non preoccupatevi, non sarà un articolo lungo e prolisso come quello sull’EICMA 2013.Lì andai con una certa tranquillità, e tutto quello che ne è venuto dopo è stata una vera epifania inaspettata.
Ero al Motodays 2014 perchè mi sembrava assurdo non fare una marchetta promozionale di “Questa non è una guida” al mercato dietro casa.
Chiesi a Nicola Ferramola del Club Tenerè Italia, ben lieto di aiutarmi come sempre, se ci fosse la possibilità di appoggiarmi al loro stand per un po’ di spazio. Mi mise in contatto con Lorenzo Valdarnotti col quale discutemmo la modalità con cui avrei partecipato. Non avendo molte pretese è stato un attimo mettersi d’accordo. Rimaneva il dubbio se ci sarebbe stato o meno un monitor su cui proiettare qualcosa.
Dubbio dissipato venerdì: la parete dello stand è di tela, per cui non si riesce ad appendere nulla. Così, la mattina di sabato 8 Marzo, io e Peppina ci presentiamo alle casse del Motodays, dove Lorenzo ci raggiunge per accompagnarci allo stand Yamaha. I ragazzi sono gentilissimi e ospitali, ma lo spazio a loro disposizione è davvero risicato: un desk di un metro e un piccolo back, ma ci accolgono senza problemi. Non mi sono venuti a trovare in molti. Anzi, per la verità si contano su una mano quelli son passati per un saluto. E tra i lettori del blog e dell’ ebook, anche Alessandro Bacci ed Elena Guarnieri, per una piacevole chiacchiera sulle nostre avventure editoriali :Alessandro sta ultimando il suo prossimo libro su un fantastico viaggio in Africa compiuto qualche anno fa insieme a Emanuele Cruciani. Poca gente, dicevo. Ma qui la responsabilità è mia: le cose si fanno bene o non si fanno. Se si va in una fiera bisogna esporre qualcosa. Nella fattispecie o il libro o la moto. O tutt’e due. Ma il libro non è di carta ed era assurdo portare la moto per un giorno solo. E chiaramente un portatile con un monitor da 15″ non attira gli sguardi di nessuno: persino io faticavo a scorgerlo quando mi allontanavo a guardare i bei modelli del passato esposti allo stand.
In ogni caso qualcuno è passato, qualcuno l’ho incontrato tra gli stand e negli altri padiglioni. E queste sono cose che fanno bene. Soprattutto quando decidi di smontare tutto a metà pomeriggio, dopo aver ricevuto la notizia che il canuzzo di casa è di colpo passato a miglior vita. Il dolore è un fatto privato, per cui non vi parlerò di questo. Vi basti sapere che però, di colpo, non me n’è fottuto niente di Totò le Motò e del suo viaggio a Samarcanda. L’esperimento promozionale finisce qui, assolutamente senza lode e con una certa dose di sconforto.
Riguardo alla fiera in sè…. beh, nulla a che vedere con quella di Milano.
Se l’EICMA è la Disneyland del motociclista italiano, Motodays è poco più di una sagra di paese.
E la differenza è palpabile non tanto per la location (anche se imbellettati da un’ardita galleria in vetro, anche a Milano sono capannoni prefabbricati) quanto per la dimensione degli stand e, ancora di più, per la bellezza delle donnine che vi lavorano. A Milano sono tutte delle fiche pazzesche, in grado di convogliare centinaia di persone in uno stand che potrebbe anche vendere carote e patate, non importa. Qui ci sono tante belle figliole, fiche pazzesche pochissime, alcune proprio buzzicone. Nel padiglione che ospita custom, special e cafe racer molte sono agghindate in stile. Un paio di loro, che si muovono sinuose su due chopper , hanno la panza e i fianchi larghi. Una delle due indossa shorts neri, stivaloni e un reggiseno bianco tipo Playtex per 50enni.
Più in là ce n’è una palesemente ricostruita in silicone e tinta in ammoniaca. Ciononostante (o forse proprio per questo), una fila educata di maschietti dallo sguardo imbozzato aspetta il suo turno per le foto di rito. Davanti a questa scena, Peppina manifesta tutta la sua perplessità che fa da specchio alla mia.
Meglio andare a trovare gli amici viaggiatori: Paolo con le sue ultime diavolerie GPS e la R80GS riportata dalla Guinea sulle sue proprie ruote dopo vent’anni di clausura in un container. Miriam, lanciatissima nella vendita del suo libro, nella veste di mattatrice dello stand di Mototurismo.
La fine della giornata al Motodays 2014 la passiamo con due personaggi di cui voglio parlarvi: il Wizz e Marcello Carucci.
Wizz ci accoglie con due cannoli siciliani presi allo stand di fronte.
Lo conobbi di persona al Weekend da Lupi di settembre, dopo aver letto i report delle sue scorribande europee. Calorosamente romagnolo, molto giovane e con le idee chiare (le avessi avute io così chiare alla sua età!), il ragazzo sta sempre in viaggio per lavoro e per diletto. Ovviamente, per diletto viaggia in moto. Il suo report del viaggio a CapoNord, raccontato su forum e social network, racconta in modo semplice e affatto tecnico di come ha realizzato il viaggio che sognava: un equipaggiamento completo ma non spropositato, una road map che, se cambia, non succede nulla, l’ottimismo della gioventù che allevia le situazioni in cui è lecito smadonnare. Sta lì col sorriso da volpino e gli occhi vispi, vicino alla sua CBF600 allestita con catene da neve artigianali (da lui progettate e realizzate da un suo amico) nonchè bagagliata, reduce dal suo viaggio di capodanno a Mosca. Anche lui neofita riguardo ai racconti di viaggio, mi racconta dei suoi progetti futuri. Alla mia domanda sul perché abbia comprato una seconda CBF e non qualcosa di più enduristico, mi risponde che non gli interessa viaggiare in fuoristrada: quello preferisce farlo con la moto da cross in uscite dedicate.
Il veterano della situazione è il sopraccitato Marcello Carucci, che viaggia in moto da ormai 35 anni.
Ci siamo dati appuntamento al suo stand per conoscerci e, devo dire la verità, sono rimasto piacevolmente sorpreso. Leggendo le sue gesta mi ero fatto l’idea che fosse uno sbruffone col botto, ma la conoscenza dal vivo ha allontanato questo pregiudizio, a dimostrazione dell’importanza dell’ uso corretto della parola scritta. Marcello ha uno stile di viaggio che non condivido nel modo più assoluto, ma non per questo meno valido del mio, se questo gli da soddisfazione e un buon numero di fans che seguono le sue imprese.
Per lui il viaggio è una sorta di prova al limite di se stessi e del mezzo utilizzato:
è famoso per aver attraversato le strade dell’Asia Centrale e le piste del Sahara in sella alla sua Hayabusa, notoriamente una moto da corsa, bassissima da terra e ultracarenata. Per la postura pistaiola, in alcuni viaggi, ha anche avuto problemi fisici non da poco. Forse la sua visione del viaggio in moto deriva dalla passione per il fitness e la cultura fisica.
E la cosa mi fa subito mettere a confronto il suo stile col mio.
Mentre io mi preparo a birra e sigarette per i viaggi, lui lo fa con ore di allenamento in palestra. Io mangio carne come se domani dovessero estinguersi tutti i bovini e suini del mondo, lui l’ha completamente esclusa dalla sua dieta. Per questo motivo, mi spiega, è costretto a portarsi scorte di cibo liofilizzato. Anche qui un differenza: io non mi priverei per nulla al mondo del rito del pasto insieme alle persone incontrate, mentre lui parte preparato con quest’intenzione, pronto a macinare migliaia di km in tempi risicatissimi. La sua tabella di marcia è un imperativo quasi divino, la mia un volantino del supermarket da usare come foglio per gli appunti. Per viaggiare a modo suo occorre una certa dose di sbruffoneria, senza dubbio. Ma in fondo lo siamo tutti, sbruffoni, a fare viaggi più o meno estremi e poi a raccontarli. Ognuno nel viaggio trova quello che cerca: per lui l’obiettivo è il superamento dei propri limiti psico-fisici, nel tentativo di spostare il picchetto della sopportazione ultima sempre un po’ più in là. E va benissimo così. L’unica cosa che mi sento di suggerirgli (se mai potessi, vista la mia poca esperienza) è di fare qualche km in meno per avere più possibilità di contatti con i locali. Dubito però che lo farà mai, almeno fin quando la sua forma fisica gli consentirà di vivere il viaggio come un’impresa. Che poi, diciamoci la verità: tutti noi siamo attratti da questa visione del viaggio. C’è chi va a Samarcanda, chi compie il periplo del Sudamerica, chi si spara Canada – Terra del Fuoco. Chi torna dalla Mongolia e poi riparte per il Ladakh.
Lo facciamo per mille motivi, ognuno col suo carico di aspettative e messe in discussione personali. Ma in fondo tutti siamo tentati dall’idea di stare facendo qualcosa di sensazionale, almeno nel momento stesso in cui la facciamo.
Calata l’adrenalina c’è il tempo e lo spazio di metabolizzare l’esperienza per poi ammettere a se stessi che in fondo non era niente di insuperabile e impossibile. E mi rendo conto che anche io sono sbruffone nel dire che le cose fatte non erano poi tanto difficili. Sbruffone a dire di non essere sbruffone. Insomma mi avete capito.
La cosa che conta è che stiamo in quei quattro metri di stand, a parlare di viaggi passati e futuri, dogane, contrattempi. Dal più giovane al più anziano di noi tre ci sono 30 anni di differenza, e io sto in mezzo: modi diversissimi di viaggiare, vedere il mondo, raccontare le esperienze. ma in tutti la stessa luce negli occhi quando l’altro racconta le sue storie.
L’ultimo lettore lo incontriamo vicino a Sofia, parcheggiata su un marciapiede vicino a un chiosco di panini zozzoni. Luca riconosce la moto e si ferma a chiacchierare con noi, snocciolando complimenti per questi due scoppiati che, invece di fare le vacanze insieme, stavano una in Ecuador, l’altro a Samarcanda. Accendo, Alessandra sale, attiva l’interfono dicendomi: “Antò…. ma t’immagini se non ero io quella che stava in Ecuador? Marò chi burdell’ ca succerev’ mò !”
Sì, meno male che era lei, in Ecuador.