Il mio articolo su Motociclismo (quello di carta, eh!) a proposito delle strade del Sud. O meglio di alcune strade del Sud. Un giro pensato e documentato a ridosso dell’obbligatorio rientro natalizio in terra natìa. Per una volta non vi parlo di steppe o deserti, ma dei posti in cui sono nato e cresciuto. E forse per questo una delle cose che finora ho scritto con più difficoltà.
Un ringraziamento lungo quanto la SS106 va a Paola Verani per la fiducia, il rigore e la pazienza con cui mi ha seguito nella stesura del mio primo articolo “on demand”.
Il suo lavoro è stato ottimo, spero che il mio sia stato all’altezza.
Di seguito l’incipit dell’articolo:
Ad esempio a me piace il Sud
Non credetemi. In realtà il mio rapporto con la mia terra è molto tormentato. In particolare da quando, dieci anni fa, me ne andai a bordo di un Pandino 750 stracarico insieme a Nato, il mio bastardazzu di labrador. All’Autogrill di Villa San Giovanni, lo stretto di Messina tentò di fermarmi per l’ennesima volta con un ultimo, disperato tentativo, sfoggiando uno dei tramonti più rossi, struggenti e melanconici che occhio umano possa ricordare. Io, per tutta risposta, spensi la sigaretta, sputai a terra e mormorai: “Stavota non mi futti”.
Fischiai a Nato, lui salì dietro, chiusi il portellone e ce ne andammo.
La via del migrante
Da quel giorno anch’io faccio parte di quella vasta schiera di persone che, a vario titolo, vengono definiti “Calabresi della Diaspora” da chi prende la cosa con un certo pathos. Iniziai a percorrere la Salerno-Reggio Calabria almeno due volte l’anno, iniziando addirittura ad apprezzarla da quando lasciai le quattro ruote per muovermi solo in moto. Assaporo ogni volta la discesa a Sud nelle tappe agli Autogrill, con il progressivo cambiare degli idiomi nelle facce scolpite di chi ci lavora e in quelle stanche di chi torna per le feste comandate. E ogni volta sono lì a chiedermi come sia iniziato tutto questo, quali ne sono state le conseguenze e chi mai popoli adesso quei paesini svuotati che abbiamo lasciato in massa.
Non vi voglio parlare di sagre, feste paesane, tarantelle e soppressate. Per quello ci sono migliaia di fonti più autorevoli. Mi voglio fare una domanda e voglio raccontarvi la risposta. Ora che sto mollando di nuovo tutto, voglio fare pace con la storia della mia terra, e lo voglio fare con un giro in moto attraverso alcuni posti che ne raccontano i movimenti epocali di masse umane.
Il caleidoscopio di Dio
Così Alessandro Dumas Padre descrisse la Calabria nel romanzo “Mastro Adamo il calabrese”. Questo perchè frane, alluvioni e terremoti devastano sistematicamente il territorio mutandone la forma e i colori. Se scrivesse ora, Dumas avrebbe un elemento in più per la sua definizione: il colore delle genti che la popolano. Se dal secondo dopoguerra in poi molti paesi sono stati quasi abbandonati, dalla fine degli anni novanta è iniziato il ripopolamento da parte di chi scappa a causa di guerre e persecuzioni politiche. Questa storia è stata raccontata da Wim Wenders nel cortometraggio “Il volo”, girato tra Badolato, Riace e Caulonia. Decido che il giro comprenderà solo i primi due paesi,per poi girare verso Mongiana, nel cuore delle Serre Calabre.
A Badolato i primi kurdi iraqeni, in fuga dal simpatico Saddam,arrivarono nel gennaio del ’98, su una carretta del mare straripante umanità disperata, dal nome Ararat.
La tipa del bar in cui mi fermo a prendere un caffè mi dice che la convivenza con gli stranieri è buona: qualcuno di loro si è fermato, ma di norma vanno via appena finisce il programma di accoglienza verso stati che possano offrire di più. Nella grande piazza desolata, solo due anziani e qualche giovane al bar. La tipa mi conferma che la grande chiesa che ho visto dalla strada è raggiungibile in moto, che ci si va anche in macchina “due o tre discese e siete arrivato!” Provo a raggiungerla, ma le discese sono sempre più ripide e strette. A stento faccio manovra e ritorno su in prima, col serio timore di ribaltarmi. Uno del posto mi intercetta: “Scusati, chì cilindrata è sta motu?” “seiessessanta, cu’ nu cilindru sulu” e finisce a chiacchiere e birra. Nei suoi occhi leggo la rassegnazione di mezzo popolo, quello rimasto in terra natìa. Chi rimane vive in un limbo dove Il futuro esiste in quanto prosecuzione lineare del presente. Ne è sintomatico il fatto che, in calabrese, la coniugazione dei verbi al futuro non esiste:Non è “Domani andrò” ma “Domani vado”.La chiacchierata mi conferma che questo giro va fatto, ma è Dicembre e il sole cala presto. Torno a casa, deciso ad andare a Riace l’indomani.
Cosa resta dell’Islam
La Calabria è un paradiso per motociclisti a causa della sua natura montuosa. In quest’area della costa Jonica ogni paese ha il centro storico in collina (a volte montagna), popolato fin da quando i saraceni, per secoli, invasero le coste che vennero ripopolate solo dopo l’avvento della ferrovia, che corre parallela alla SS106 Reggio Taranto, a sua volta asfaltata dopo la II Guerra Mondiale.
L’Islam continua a sbarcare qui ma oggi, invece di saraceni armati di scimitarra, arrivano gli ultimi della terra in cerca della perduta dignità umana. A Riace passavo tutte le estati da bambino, e sono curioso di vedere come la favola di speranza raccontata da Wenders abbia trasformato gli abitanti di un paesino alla periferia della nazione. Rimango deluso. Al bar non trovo nemmeno un Abdul o un Aziz a chiacchierare con i nativi che, pur rispondendo al mio saluto quando scendo dalla moto, non mi cacano di striscio, continuando a parlare dei fatti loro. Né domande sulla moto, tanto meno giri di birra.
All’ingresso del paese, due cartelli salutano il visitatore: il primo è la segnaletica standard, forato dai pallettoni come si usa nei territori delle ‘ndrine, a ricordare chi comanda. Il secondo riporta il disegno di un bambino con un chiaro riferimento al film “I cento passi” e la dicitura “Città dell’Accoglienza”. Tanti i murales nei vicoli del paese inneggianti alla fratellanza tra popoli, tanti i colori delle facce che tornano verso casa per l’ora di pranzo,tra le botteghe di artigiani con nomi orientali. Ma ognun per sé. Sul sagrato della chiesa gli invitati a un matrimonio mi osservano perplessi. Un piccolo presepe con su scritto “solo Dio è grande”, forse a ricordare che quella terra è cattolica da secoli, sulla terrazza che porta al sentiero delle fontane, appena restaurato. Insomma il paese sembra avere due anime: da un lato il sindaco e chi si ribella all’arretratezza e cerca di rilanciare il senso del luogo. Dall’altra chi vorrebbe che tutto rimanesse come prima, convinto che l’identità corrisponda alla chiusura. Di fatto il paese ha una nuova vita, a dispetto delle minacce ricevute dall’amministrazione e dai tentativi del governo di boicottare un programma di accoglienza davvero efficacie e funzionale, ma che disturba chi lucra sulle disgrazie umanitarie: costa 20 euro di fondi europei al giorno per rifugiato. Contro gli 80 assorbiti dai C.A.R.A., i lager che vediamo in tv dove la gente viene ammassata per mesi senza un motivo e portata all’esasperazione.
Li chiamarono Briganti
E’ quasi l’ora di pranzo quando riparto alla volta di Stilo, il paese di Tommaso Campanella. attraverso un paesaggio spettacolare di forre e calanchi in mezzo a campagne, ora verdi, che d’estate diventano di un giallo intenso bruciato dal sole. La strada che ho preventivato di fare è chiusa al traffico, ma supero la sbarra incitato dalla scritta “strada dissestata” e “pericolo”.
Il navigatore mi indica che sono in contrada Malafranò, nome più che appropriato a questa landa circondata dai fichidindia, poche abitazioni e mucche al pascolo: diversi tratti sono sprofondati con gli smottamenti del terreno, altri sono senz’asfalto. I pochi guardrail sono crollati e arrugginiti. Dopo una salita in rettilineo, la strada vira a sinistra aprendo la vista sul letto dello Stilaro, l’enorme torrente ai piedi di Stilo, cittadina abbarbicata sul fianco di un basso monte a dominio della vallata, che raggiungo attraverso una serie di tornanti su cui me la godo non poco. Da qui a Mongiana è ancora un’ ora di strada, anche in moto.
Vado su, ancora più su e le curve non finiscono mai, mentre il sole fa capolino tra un tornante e l’altro, nascondendosi dietro i possenti fianchi della montagna, giocando a fare la stroboscopica tra i rami degli alberi. Nonostante l’abbigliamento tecnico inizio a sentire freddo alle estremità: meno di un ora fa ero poco più su del livello del mare e faceva caldo. Un attimo prima di entrare nel bosco della sorgente Mangiatorella, A quota 1100 slm il paesaggio è potente: al centro della vista le cime delle montagne, sfavillanti a sovrastare gli orridi sottostanti e le vallate ormai in ombra. A sinistra e a destra il mare piatto, a fare da specchio al sole basso, prossimo a congedarsi da questa parte di mondo. La strada rientra nei boschi per diversi chilometri, continuando a salire di quota, piena di foglie impastate a neve. Alla fine ci arrivo, a Mongiana, dopo qualche sbandata sull’asfalto viscido. Non è una località turistica, non ci fanno caciotte particolari né insaccati tipici. Men che meno vini spettacolari. E allora cosa faccio quì?
Archeologia industriale
Cerco quello che rimane di uno dei più grandi poli siderurgici d’Europa fino al 1861, quando i Savoia decisero di annettere il regno delle due Sicilie per ripianare il passivo delle casse di stato.
Non voglio fare una lezione di controstoria ma non si può non considerare che venne abolita la legge sugli usi civici dei terreni, requisiti e venduti al miglior offerente, dando origine al latifondismo che, insieme all’aumento vertiginoso di tasse e balzelli, costrinse gli ex contadini a emigrare verso le Americhe prima e verso il Nord dopo. Vi stupirà forse sapere che la tradizione siderurgica del Nord-Est in realtà viene dal sud, dal trapianto delle famiglie di operai di Mongiana, le cui macchine vennero fuse a Terni dopo la dismissione degli impianti. In questo centro delle Serre Calabre si producevano le armi dell’esercito germanico e vennero sfornati i binari della prima ferrovia d’Italia, la Napoli – Portici. Qui vennero prodotti i pezzi del ponte sul Garigliano, il primo in acciaio costruito in Italia.
L’annessione del sud fu un fatto violento e sanguinoso, ne nacque un moto di ribellione che venne definito brigantaggio. Con tale pretesto interi paesi vennero colpiti da rappresaglia dell’esercito savoiardo e venne inculcato un senso di inferiorità genetica delle popolazioni del Sud, in particolare dei calabresi. Che attecchì benissimo: se in Campania e Basilicata ci fu una vera lotta di resistenza, in Calabria ci furono pochi casi isolati per lo più riconducibili alla malavita locale. Si radicò la diffidenza e l’odio verso lo stato centrale, riconoscendo come vera autorità quella delle ‘ndrine, più vicine alla vita locale e davvero in grado di gestire controversie in modo rapido e inappellabile. Si diffuse una certa diffidenza nei confronti di chi viene da fuori, tuttora percepibile. Delle acciaierie rimane un piccolo museo, ben fatto, di cui i giovani custodi non sanno dire nulla, inebetiti da pomeriggi sempre uguali e dal cronico disinteresse delle amministrazioni. Il paese sonnecchia, solo un uomo all’angolo della strada di fronte a edifici mezzi crollati.
Entro nel bar della piazza per un caffè corretto. Gli avventori, tutti uomini, mi scrutano incuriositi ma nessuno mi rivolge direttamente la parola. Solo il barista fa una battuta per me incomprensibile alla quale tutti ridono, a sancire la mia estraneità. Forse ho sbagliato a mettere l’abbigliamento tecnico, mi dico. ma non è quello il problema. Nell’aria sembra aleggiare il monito “Fatt’i cazzi toi!” E me li faccio, i cazzi miei. Vado via al calar del sole, in mezzo a monti e boschi che potrebbero stare nel Wyoming. Punto verso l’ultima tappa del giro attraversando un magnifico paesaggio ferito dal cemento,volgarmente usato per costruire qualsiasi cosa, anche se il più delle volte in buona fede.
Arrivo all’invaso del lago di Lacina, sovrastato da un disordinato parco eolico, che fornisce acqua a molti comuni intorno a Vibo Valentia. Ma pare che qualcosa non torni: molti denunciano acque torbide e strane schiume colorate. Può essere per la natura ferrosa delle terre, ma si vocifera di un interramento di rifiuti tossici durante la realizzazione del l’invaso. Il tramonto struggente non fa che amplificare dentro di me il senso di sconfitta di un popolo che non ha mai voluto reagire per riprendersi la sua terra. Sferzato da vento gelido percorro le vie di servizio ai piedi delle turbine, tentando una scalata verso un rotore, che fallisco per il fondo smottato dalle piogge e per la scarsa visibilità. Ne ricavo una bella foto ma niente di più. Termino il giro tornando verso casa, mentre chiudo il cerchio di tutta questa storia.
Qui si parte e si arriva a rotazione: andiamo noi a creare reddito al nord, sostituiti da gentre di un altro sud dove, come nel nostro, i padroni locali sfruttanno gente e territorio. E dove la vera soddisfazione è piangersi addosso piuttosto che mettersi all’opera.
La Trinacria è diversa. Almeno pare.
Sensazione che avrò ancora, percorrendo la SS 106 fino a Villa San Giovanni insieme ad Alessandra, la mia compagna, diretti in Sicilia. Delle bellezze di quest’isola vi hanno già parlato su Motociclismo di febbraio. Io mi limito a riportare il senso di rispetto dei siciliani per la loro terra, almeno intorno alle pendici dell’Etna. Qui la gente convive con il vulcano in piena sicurezza, ormai abituata alla strada periodicamente invasa dalla cenere, e anche le stazioni sciistiche rimangono aperte col vulcano in attività. Nei secoli gli abitanti hanno imparato dove costruire senza patire danni, spesso senza neanche accorgersi delle eruzioni. Anche la Sicilia ha problemi non da poco ma, almeno da queste parti, le eccellenze sono rispettate: Catania è un piccolo gioiello, i pistacchi di Bronte sono conosciuti in tutto il mondo e i terrazzamenti dei vigneti sono curati e attivi. Per una breve giornata viviamo un altro sud, fatto di neve candida mista a nera cenere, popolato da gente orgogliosa e innamorata della sua terra.
Al ritorno ho la conferma che i lavori sulla A3 stanno davvero per finire: altre gallerie attraversano veloci le montagne, nascondendo il panorama dello Stretto di Messina. Ormai al buio decidiamo di percorrere la statale 18 fino a Maratea, dove dormiremo in un hotel rimasto intatto dagli anni ’70, passando la serata in una pizzeria a poche persone che si divertono da matti in un improbabile karaoke. A loro va bene così, e quasi li invidio. L’indomani percorreremo i tornanti che ci portano alla SS 19, che di continuo si interseca all’autostrada. Borghi arroccati e sonnolenti spacci alimentari in una montagna senza tempo, dove ogni giorno è uguale a se stesso com’è giusto che sia. Una pioggia sottile inzuppa i nostri vestiti e i miei pensieri mentre percorriamo curve e tornanti: sono partito con l’intenzione di far pace con la mia terra, canticchiando Rino Gaetano in una giornata di sole.
Ritorno a Roma immaginando un bar affollato di volti olivastri che in coro mi ripetono”fatt’i cazzi toi” mentre in sottofondo, disperato, Modugno canta il suo commiato da emigrante.
Addio, addio Amore. Io vado via.
Amara terra mia
Nota: L’articolo è stato scritto tra gennaio e febbraio 2014. Il 22 maggio 2014 il comune di Badolato è stato sciolto per infiltrazioni mafiose.