Il cugino del tipo, come previsto e contrariamente a quanto dichiarato, arriva alle cinque e qualcosa, mentre in bagno cerco di farmi venire il buonumore necessario ad affrontare una giornata di posti di blocco e passaporti, accompagnato dalla scorta.
Nervosi, infreddoliti e stanchi dopo quattro ore di sonno su un tappeto, carichiamo Sofia mentre Hesam ci sollecita di far presto con la sua aria mortificata. Al posto di polizia non c’è nessun viaggiatore, sono tutti andati via alle 5,30.E con loro c’erano anche i nostri tedeschi. Salutiamo l’amico, ormai disobbligato nei confronti delle forze dell’ordine, con affetto e riconoscenza mal simulati da entrambe le parti. Dopodiché aspettiamo. Nel bugigattolo prefabbricato sediamo insieme agli stessi poliziotti della sera prima, sorridenti e cordiali nonostante le facce stropicciate dalla stanchezza e l’abitudine al tono militare. Ci offrono del tè e mandano uno scazzupolo di guardia a comprarci due bottiglie d’acqua che verso subito nelle borracce. Con lo sbirro buono della sera prima arriva anche la scorta.

La prima scorta, anzi. Quella che ci porta in un punto intermedio della città e ci affida a un’altra ancora che ci porta in periferia dove ce n’è una terza che ci porta fuori dall’abitato. Lì ne attendiamo una quarta per due ore buone. Sembrerebbe una cosa seria, detta così. E per come è organizzata lo è.
Il fatto è che le scorte sono composte da quattro militari su un pick-up, due in cabina e gli altri sul cassone, e una moto da enduro con due militari armati di mitra. Oppure soltanto da una moto con due soldati. In ogni caso, con un colpo di gas potrei seminarli in un attimo. Poi loro magari mi sparerebbero, ma questo è un altro discorso che non ci tengo a verificare. In pratica siamo scortati da ragazzini con neanche tutta la barba in viso, alcuni dei quali in borghese e poco attrezzati. Nel giro di poche ore ci siamo completamente abituati a stare circondati da gente armata che parla una lingua a noi incomprensibile.
La scorta iraniana. Bravi ragazzi ma un po’ larghi nei tempi.
L’attesa alle porte di Zāhedān è lunga e abbiamo modo e tempo di socializzare con i nostri benevoli sequestratori. Magari è un caso di Sindrome di Stoccolma, ma nutriamo una certa simpatia per questi ragazzotti in divisa, e anche per quelli della sera prima. Quando li ringraziamo o chiediamo il perché di tutto questo, loro ci rispondono che è il loro dovere. E lo eseguono senza pensarci e nel modo previsto dal regolamento, senza adito allo sgarro. In ogni caso, dopo la prima ora cominciamo a scassarci seriamente i cabbasisi e, di riflesso, li scassiamo a loro per sapere il perché di tanta attesa. In una versione iraniana del peppinese ci spiegano che aspettiamo la scorta di ritorno dal confine. Finisce tutto a tarallucci e vino, con noi che ci sbracciamo esultanti e cazzari per chiamare tutti i pick up con militari variamente armati che arrivano dalla direzione del border.
L’unica cosa che mi dispiace è di non aver potuto fare foto insieme a loro. Quelle due o tre rubate ce le ha fate cancellare il capoccia di un check point sulla strada quando ci ha sgamati in flagrante, mentre aspettavamo un cambio di scorta. In tutto dalla periferia di Zāhedān a Mirjaveh avremo cambiato quattro o cinque pattuglie, l’ultima delle quali ci ha anche accompagnato a fare benzina. E un militare ventenne dell’ultimissimo pick-up ci accompagna dentro gli uffici della dogana a sbrogliare le questioni di carnet de passage e passaporti. La visione più bella della giornata è stata quella di Kristine che gioca col pupo davanti ai camper della carovana tedesca: li abbiamo beccati lì alla dogana nonostante il ritardone.
La Matrjoskaravan si ricompone
La storia della porta bloccata fa ridere tutti e dà la scusa a uno dei turoperètor tedeschi per iniziare a fare battute sui personaggi italiani tiratardi e perditempo. La comitiva teutonica è composta interamente da pensionati che, invece di zappare l’orto, si lanciano nel brivido dell’avventura organizzata su casa mobile. Scoprirò nei giorni a venire che il costo complessivo del loro viaggio è di quattordicimila euro a persona e diecimila per il camper. Un abisso che ancora non riesco a giustificare eticamente per un viaggio definito d’avventura. Che poi ‘sta cazzo di Adventure mi dovete dire dove stia di casa, nel 2014, tra GPS, cellulari e connessioni varie e un turoperètor che ti organizza tutto.
Comunque…
Stiamo buttati nel lato iraniano del border tutta la mattina e l’inizio del pomeriggio, con i turoperètor che seguono le pratiche dell’ospizio avventuroso e dei tedeschi, mentre il nostro soldatino belloccio e cordiale segue i nostri incartamenti. In una sala d’attesa la TV manda immagini di soldati in azione contro la folla in un paese assolato e desertico. Mi tranquillizzo, egoisticamente, quando un signore in abito tradizionale del Balochistan e sbracato a piedi nudi su una panca mi dice che si tratta della Palestina. L’ultimo sprazzo di ospitalità iraniana poco prima di passare in terra pakistana, con un melograno offerto da un militare che controlla i carnet de passage.
Se dal lato iraniano la frontiera è un piccolo centro organizzato con edifici e asfalto, sul lato pakistano è una stecca in muratura intonacata simile a una grande baracca. Il primo controllo passaporti è rapido e finisce con una foto da archiviare insieme ai dati generali. Cambiamo al volo cento euro: non vorremmo cambiare così tanti soldi alla frontiera per il tasso svantaggioso, ma da lì in poi il primo cambio è a Quetta e non sappiamo se sarà possibile effettuarlo. Dopo i passaporti è tempo di importare i veicoli.

La dogana si raggiunge dopo circa ottocento metri di strada polverosa e sgarrupata in pieno deserto, tracciata dagli spazi vuoti tra le case dell’insediamento militare di frontiera, che termina in un grande parcheggio, sempre sterrato, dove c’è qualsiasi tipo di veicolo dalle motorette che regnano sovrane ai decoratissimi Bedford dei camionisti Balochi. Tutta la trafila avviene in uno stanzone burocratico dove ci mettiamo ad aspettare su un divanone di finta pelle, mentre il turoperètor locale della carovana segue tutto per noi. Avremo un ruolo attivo solo quando firmeremo sul registro d’ingresso l’avvenuta importazione del veicolo. Nel frattempo ci trastulliamo nel parcheggio rovente e polveroso con le guardie armate che cercano di allontanare i ragazzini curiosi.
Quella è già la nostra scorta ma noi non lo sappiamo ancora.
I babbioni dei camper stanno tutti rintanati nei loro abitacoli a godersi la loro confortevole avventura, mentre gli sfigati in moto socializzano con l’umanità screpolata dal sole di guardie e pischelli. L’occasione è data dal bisogno di Tino e Hubert di fare rifornimento, cosa che fa materializzare in un attimo due tipi in motoretta equipaggiati di bidone. Guardie e pischelli osservano interessatissimi come se si trattasse dell’ampolla col sangue di San Gennaro.
Uno dei Levies, il corpo paramilitare del Balochistan, è quello più cazzuto e simpatico di tutti. Alto un metro e una noce e impacchettato in una divisa di almeno due taglie più grande, la pelle bruciata dal sole e un paio di baffoni neri come gli occhi vispi, il tipo starebbe alla grande in uno spaghetti western, perciò lo chiamerò er Mitraglia. Non molla mai il fucile che porta sulle spalle, quasi più grande di lui, ed è uno spettacolo vederlo cazziare i bambini per non farli avvicinare troppo alle moto, che nel giro di qualche ora inizieranno a riempirsi di sabbia in ogni interstizio.
Di sicuro la cosa che ricordo di più dei giorni in Balochistan è l’odore intenso della sabbia finissima, che più di una volta mi ha fatto tornare in mente immagini delle campagne intorno a Riace di quando ero bambino. Che poi è strano che uno sta in Pakistan e gli viene in mente la Calabria. O forse no, fate voi. Però vorrà dire qualcosa se con la gente del posto, che non parla inglese, mi metto a parlare in calabrese affidandomi al tono più che alla parola.
C’è vita in caserma
Il Pippone burocratico finisce al tramonto e non è cosa di lasciare Taftan. Come anticipato da alcuni racconti di viaggiatori, la polizia ci ospita nella sua stazione: i camper vengono sistemati nello spiazzo fuori dalle mura e sorvegliati a vista. Noi e le nostre moto veniamo portati letteralmente dentro alla stazione, parcheggiando nel cortile che separa gli uffici dalle celle con dentro alcuni detenuti.
Ci danno uno stanzone dove dormiremo nei nostri sacchi a pelo, dopo aver preparato la cena nello spazio coperto sul lato opposto alle celle. La situazione sfiora l’assurdo quando queste vengono aperte per l’ora d’aria serale: loro da una parte, noi dall’altra ma non ci parliamo, mentre Peppina dice che vorrebbe cucinare per tutti. Ma lo dice solo a me, ché tanto lo sa che sarebbe inutile. Come sarebbe inutile cercare di andarci a parlare, perché verremmo subito bloccati dalle guardie che non ci mollano un minuto. Ci limitiamo a guardarci a vicenda, abbozzando qualche cenno di saluto che rompe l’indifferenza forzata.

La serata è vivace: arriveranno nuovi detenuti provvisori, colti in flagrante nel tentativo di emigrare illegalmente in Iran, il più vicino paese ricco. Uno di loro si beccherà anche un paio di scoppoloni dal capo della stazione, forse per aver detto un parola di troppo mentre gli altri, sei o sette in tutto, vengono trattenuti in ginocchio e con le mani dietro la testa proprio davanti a noi che prepariamo la cena. Una situazione che definire paradossale è poco. Verso le dieci arriveranno anche i pullman carichi di pellegrini diretti in Iran per una festa sciita, annunciati dal polverone che, illuminato dai fari, ci farà pensare a un incendio. Prima di tutto questo, però, usciamo nel parcheggio dove sono sistemati i camper della carovana a recuperare una bottiglia d’acqua lasciata in fresco nel furgone dei nostri amici.
Un giorno qualunque per i Balochistan Levies
La spianata è circondata dalla polizia in ogni angolo. Tutto il villaggio è presidiato e mi viene da chiedere scusa al capo della milizia per il disturbo che stiamo creando: alla fine siamo solo gente annoiata che va a sfruculiare in un posto dove ci sono cazzi belli grossi e tutto questo, per la polizia locale, si traduce in una straordinaria rottura di palle. La risposta del tipo è categorica:
-“Nessuno straordinario, lo facciamo ogni sera. Bisogna stare con gli occhi aperti perchè i nemici non scherzano!”
-“Ok, ma chi sono i nemici?”
-”Taliban!”
Risponde fermo e perentorio, iniziando a parlare delle ripetute incursioni dei barbuti nei villaggi. Scoprirò nei giorni a seguire che la cosa è molto più complicata. Ma questa prima versione dei fatti mi basta, almeno per la serata. Anche perchè ognuno ha i suoi problemi: loro hanno i talebani, noi il turoperètor che ha decretato, insieme alla scorta, che si parte alle quattro e trenta l’indomani mattina. Ché i camper sono lenti e fino a Quetta sono seicento chilometri. Noi già siamo lenti di nostro, ci dovevamo pure accodare ai pachidermi degli over 60! Mi convinco sempre di più che la carovana giusta era tre moto e un camper. Ma ormai è fatta: la scorta è in comune e il convoglio è uno solo.
La Matrjoskaravan domani attraverserà il Balochistan, scortata dai Taftan Levies. Che detto così fa un certo effetto. Vado a nanna per ultimo, come sempre, dopo l’ultima sigaretta iraniana fumata mentre ‘er Mitraglia mi comunica orgoglioso che starà di guardia sul tetto della caserma, arrampicandosi su una scala storta e traballante, smadonnante e impacciato da mitra e coperta. Se questo è solo l’inizio, la polizia pakistana inizia a starmi simpatica assai.