Inizio a scrivere del Pakistan Border Crossing a Quetta, Pakistan, in una stanza decente del Bloom Star Hotel,dove siamo arrivati stamattina, 28 ottobre 2014, scortati in pompa magna dalla polizia pakistana dopo una notte passata nelle loro reali stanze. Non siamo stati loro ospiti per aver commesso reati, né trattenuti contro la nostra volontà e non è neanche la prima notte passata in una stazione di polizia. Ma la storia è lunga e non so da dove inizi esattamente.
Pakistan Border Crossing: ognuno dice la sua.
Nei mesi precedenti avevo sentito dire tante cose sul Pakistan e sulle zone da attraversare entrandoci dall’Iran. Le info più utili, precise e lucide erano arrivate da Donato, il mio mentore in viaggi asiatici,e da Maori, l’amico paramilitare. Il resto erano solo notizie frammentate che andavano dal catastrofico al comico al demenziale. Avevo sentito parlare di attacchi bombaroli, di scorte serrate della polizia in aree pericolose, polizia descritta alternativamente come temibile o simpaticissima. E a tratti alterni mi sono agitato anch’io, curioso di vedere cosa sarebbe successo. Di certo c’era solo una cosa: che si esce dall’Iran scortati e nello stesso modo si entra in Pakistan per un numero indefinito di chilometri.

La storia del nostro border crossing inizia a Bam, Iran, alla guesthouse di Akbar, ormai punto di riferimento per tutti gli overlander da e per il Pakistan. Ci andiamo per prendere fiato prima dei giorni delle scorte, che già immaginiamo duri, e per trovare qualcuno con cui fare carovana. Che naturalmente arriva nel giro di un paio di giorni.
Prima una coppia tedesca sulla trentina, Florian e Kristine, muniti di camper e pargolo, diretti a Bali per starci un paio d’anni. Il giorno dopo arrivano Tino e Hubert, rispettivamente su Honda CBF 500 e BMW R1100GS, anche loro teutonici.

Tutti cerchiamo compagnia e, nei giorni passati insieme, metteremo insieme le informazioni che ci arrivano dai vari contatti. I tedeschi parlano di una carovana di una quindicina di camper, diretti anche loro a Bali, organizzata e guidata da un tour operator tedesco e della loro intenzione di unirsi a loro per il tratto fino a Quetta, notoriamente il più serrato e presumibilmente più pericoloso. La data prevista è il 26, un giorno prima rispetto a quanto da noi deciso e concordato con un couchsurfer che dovrebbe ospitarci a Zāhedān. A Bam si sta bene davvero: vorremmo fermarci a tempo indefinito in quell’oasi nel deserto, calda di giorno e fredda di notte a mangiare i datteri di Akbar, ascoltando le sue storie da viaggiatore e barzellette da albergatore.
Però sappiamo anche che se perdiamo questa carovana, chissà quando ne becchiamo un’altra. Da Akbar ci siamo finiti sulle tracce di Tamaaki, giapponese incontrato a Eṣfahān col quale non siamo riusciti ad avere gli stessi tempi: il nostro visto iraniano scade il 28, il suo visto pakistano nel giro di due settimane. Noi siamo italiani e tendenti al fricchettonismo, lui un sessantacinquenne giapponese, una scheggia d’organizzazione e operatività. Non ci incontreremo più, ma non mancherà di aggiornarci, con una cortesia tipicamente nipponica, ad ogni step della sua traversata pakistana per darci info utili che condivideremo con i nostri compagni di viaggio. Decidiamo di unirci alla carovana grande formandone una più piccola all’interno di quella: dovessimo avere un qualunque problema, i camper non si fermeranno, essendo uno stronzissimo viaggio organizzato.
La nostra sarà quindi una carovana dentro la carovana: una Matrjoskaravan.
Hesam, il couchsurfer che ci ospiterà, dirige un istituto di lingue a Zāhedān e vorrebbe che incontrassimo i suoi studenti per parlare del viaggio e di noi, e la cosa ci sfizia assai. Ragion per cui entro il 24 finisco con pulizia di filtro aria e corpi farfallati e mi sparo per l’occasione un cambio candela (con l’occasione ringrazio gli utenti del Mukka Group per la piacevole discussione da cazzari su che olio usare per il filtro). L’olio l’avevo già cambiato a Shīrāz qualche giorno prima, mettendoci un 10W40 della Elf per automobile. Vi saprò dire se ci sono differenze tra olio per moto e per auto. Intanto è olio motore, e questo basta e avanza, visto che a Shīrāz stavo per cuocere di nuovo la frizione nel traffico, per quanto stava asciutta quell’astina.
Altra riparazione obbligata è quella del fornello a benzina, ben fatto ma con un ridicolo stantuffo per l’aria. Un amico di Akbar mi porta da un venditore di bici che ritaglia a misura un gommino da pompa per bici. Funzionerà per poco tempo, visto che la gomma di cui è fatto si scioglie con la benzina.

Le ultime notizie fresche ci vengono da Ulaş, un turco che sembra Caparezza arrivato su Ténéré 660 la notte prima della nostra partenza. Mappa alla mano ci spiega quali sonno le strade aperte e conferma le informazioni sull’efficienza e cordialità della polizia pakistana.
La Matrjoskaravan lascia Bam. Il Pakistan Border Crossing si avvicina.
Strano ma vero riusciamo a partire per le nove insieme ai tedeschi: io contento di aver trovato una carovana, Peppina già stressata dal caldo boia che ha iniziato a martellare senza pietà.Ci separiamo subito per rifornimenti e problemi di Tino (“My tire is magnetic: three puncture! not one, three!”) alle gomme, ci ritroviamo un centinaio di km dopo all’ombra di ciò che resta di una fabbrica di mattoni nel deserto, usato da molti come area di sosta. Tra i tanti, una coppia di iraniani che ci regala dei mandarini, che chiamano portugàl come in Calabria.

La carovana è molto rilassata, manteniamo distanze anche ampie senza perderci di vista mentre attraversiamo quel deserto che è la propaggine sudorientale del Dasht-e-Lut, dove è stata registrata la temperatura più alta del globo. E la contentezza di quattro cazzoni europei su due ruote sarà tanta quando il paesaggio roccioso lascia il posto alle dune di sabbia, facendoci sentire definitivamente lontani da casa e contenti di esserlo.
L’area che attraversiamo e in cui siamo da almeno quattro giorni è il Balochistan, una regione popolata da pastori nomadi, i Balochi (ma và?), organizzati in tribù e divisi tra Iran, Pakistan e Afghanistan. Anche loro, come tutti i popoli divisi a tavolino sono una spina nel fianco dei governi sopra citati. Un assaggio molto stretto della loro socialità lo abbiamo durante il pranzo in un bugigattolo sulla strada, l’unica cosa che prepari cibo dopo un paio di costruzioni vuote nel deserto, le uniche per decine di chilometri.

Ché di moschee nel nulla se ne trovano, posti per mangiare un po’ meno. Optiamo per pollo alla brace, nonostante l’esercito di mosche che talebanamente assedia l’area, scuotendo fortemente la nervatura di Peppina che ancora non riesce ad abituarsi al dominio incontrastato di questi insetti. Siamo letteralmente circondati da una piccola folla di umanità locale in cui quasi nessuno parla inglese.
E, per noi terroni, è un piccolo sollievo ascoltare quegli accenti dopo tre giorni che ci sembra di stare in un film sull’occupazione nazista. Accenti tosti e facce bruciate dal sole, qualcuno sembra il cugino di Bin Laden ma nel modo più assoluto uno dei posti più tranquilli e socievoli del mondo. Ripartiamo decisi a non fare soste, dato che siamo a meno di cento chilometri da Zāhedān, ma subito dopo ci fermiamo perché finalmente, a novemila chilometri da casa, vediamo i cammelli. Che in realtà sono dromedari, ma con i tedeschi li chiamiamo camél, come le sigarette della canzone.
L’idillio di cazzeggio con i cammellieri finisce quando arriva la polizia, agitatasi alla vista di tre moto incustodite, chiaramente europee, sulla strada. In particolare il capoccia della pattuglia, un pick-up con due militari sul cassone, continua a ripetere di andare via, nonostante il Cammelliere offra per tutti una bottiglia di latte di cammello (e daje… sono dromedari!) fermentato, salato e gassato. Loro ne vanno pazzi, a noi fa cacare, visto che sembra di bere pecorino liquido frizzante. Il fatto che la polizia si allarmi così tanto, vietandoci di fare foto e sollecitandoci quasi brutalmente di andare via, ci fa capire che siamo entrati nella zona calda.
Placcati dalla polizia
Il nostro host per la serata si è raccomandato vivamente di evitare di farci vedere dalle forze dell’ordine in città, altrimenti ci avrebbero portati in hotel e appioppato una scorta a tempo indeterminato. Si è raccomandato bene e tanto, il genio, ma mi ha mandato coordinate e indirizzo sbagliati, per cui arriviamo in città e iniziamo a girare in cerca di questo benedetto istituto di lingue senza trovarlo. Quando proviamo a chiedere info, la gente ci chiede se stiamo cercando la madrasa, nessuno conosce l’istituto Tamadòn. Fino a quando la polizia, vedendo una coppia di stranieri su una moto carica all’inverosimile vagare a vuoto, non ci ferma e lì la pacchia finisce.Riusciamo a far chiamare il nostro amico da un passante, riuscendo a farci accompagnare dalla pattuglia.
Non da lui, però, solo in caserma dove, dopo una lunga richiesta di spiegazioni, riusciamo a farci portare in questo benedetto istituto. La scorta è composta da due poliziotti in borghese, uno più sveglio in giacca di pelle e pistola, l’altro con la faccia meno lucida ma in pieno stile poliziottesco anni’70. Tipo il cugino persiano di Franco Nero. Hesam ci aspetta davanti all’ingresso della sua scuola, che sta in una parallela della strada che mi aveva mandato via messaggio. Dall’espressione sembra mortificato per tutto il trambusto. Noi lo siamo forse più di lui. Alla fine scopriremo che la sua faccia è proprio così, mortificata e un po’ imbambolata con lo sguardo altrove nascosto dagli occhiali.
Da quel momento inizia il nostro rapporto stretto con le scorte di polizia degli Stati Canaglia. Non c’è bisogno di scaricare la moto: rimangono gli sbirri a vegliare sulla sicurezza nostra e di Sofia. Ci mettiamo un po’ a rasserenarci all’idea: simbolicamente stacchiamo e portiamo su la borsa da serbatoio, più come feticcio che come misura di precauzionale. Ma alla fine, sudati, storditi e con una tazza di çay in mano ci accomodiamo nell’aula dove ci sono una decina di ragazzi, tra cui tre signorine di nero velato e con la faccia sveglia, insieme alla moglie di Hesam in cattedra.
Chiediamo subito scusa per il nostro inglese pessimo. Io lo faccio in Inglese, Peppina in peppinese. La Mogliera, di nero velata anche lei, inizia con le domande di rito in perfetto inglese e con tono da vera maestra, che già alla terza domanda mi sta discretamente scomoda come un perizoma taglia XS. La simpatia tra Peppina e lei, invece, non dura neanche due sorsate di tè. Quando arrivano le domande dei ragazzi, una delle Velate chiede alla mia diplomatica signora cosa ne pensi del velo. Potete immaginare la sua risposta, un po’ meno l’effetto che ha avuto sui ragazzi e sulla Mogliera, visto che lì si insegnano diverse lingue ma non il peppinese.
È toccato a me il tentativo di mediazione in inglese, cercando di spiegare che è una questione di libertà personale e non un rifiuto a priori della loro religione. Tentativo fallito quando Peppina, non contenta, ha incalzato facendo riferimenti poco chiari ai fatti di Eṣfahān, dando a intendere che per lei l’Islam sia ben rappresentato dalle teste di cazzo che nell’ultimo mese hanno sfregiato con l’acido sei donne perché, pare, poco ortodosse nell’indossare il velo. Uno dei ragazzi, l’ultimo arrivato e il più loquace e sveglio, mette fine a questa mia tortura dicendo “Ma perché parlare di religione? Ci sono così tanti argomenti!” Ché gli offrirei al volo una vodka per l’intervento, se solo Mohamed fosse d’accordo.
E di argomenti ce n’è tanti e tutti fanno trasparire la voglia che hanno ‘sti figlioli di scappare verso l’occidente. Fanno domande molto precise sull’economia italiana, consapevoli del fatto che stiamo alla frutta come non mai. Provo a spiegargli il perché e troviamo molti punti in comune riguardo alle minchiate dei rispettivi governi sulla gestione poco pulita della cosa pubblica. La conferma definitiva che questo governo non c’entra nulla con la stragrande maggioranza della popolazione. A differenza dell’Italia in cui siamo bravissimi a lamentarci delle persone che mandiamo sistematicamente al governo.
Il fatto che le loro domande non siano solo sul nostro viaggio ci aiuta a stare con i piedi per terra, facendoci sentire persone normali e non gli alieni che sembriamo negli ultimi mesi. La chiacchiera con i ragazzi prosegue bene, anche quando faccio le mie sparate da anarchico apolide che fanno innervosire la Mogliera, come quando dico che sarò felice il giorno in cui vedrò i capi di stato risolversi i cazzi loro chiudendosi in una stanza, dandosele loro di santa ragione invece di inviare truppe, proclamare embarghi e fare terrorismo mediatico.

Cambio di programma
È palese che alla Mogliera non stiamo simpatici. E ne avremo conferma quando vedremo la casa dove alloggiamo. Prima di arrivarci, però, passiamo insieme al nostro host dal posto di polizia di fronte all’hotel dove stanno gli alleati teutonici a dichiarare chi siamo e dove andiamo. Aveva ragione Hamed: una volta beccati non abbiamo più libertà di movimento. Vorrebbero imporci di andare in hotel, cosa che riescono a fare con due spagnoli su Royal Enfield di ritorno dall’India e beccati per la città con le loro motazze cariche di pezzi di ricambio stipati in ogni dove.
Ché a un certo punto pare facciano a gara a chi becca più turisti vaganti. Dopo un paio d’ore il nostro amico riesce a farsi dare il permesso di portarci a casa sua: si prende la piena responsabilità dei suoi ospiti, con tanto di firma e impronta digitale. Scortati da un motorino della polizia arriviamo a quella che scopriamo essere la casa del cugino, discretamente zozza, ma va bene. L’accordo iniziale era che avremmo dormito in istituto, ma la sera prima, dopo avermi chiesto per conto della moglie se la mia signora fosse con me, mi aveva scritto che avremmo cenato e dormito a casa sua. Ma siccome siamo stati sul cazzo alla Mogliera, ora ci tocca la casa del cugino zozzone.
E va benissimo, visto che è gratis e spero di avere qualcuno con cui parlare di questo paese. Invece no. Poche chiacchiere alquanto banali e l’amico si mette subito su feisbuk, chiedendoci un amicizia che evita di darci di persona. Alla fine capiamo che il suo è un do ut des abbastanza lineare: io vi do ospitalità, voi venite alla mia scuola a parlare del mondo, così i ragazzi fanno pratica e io ci guadagno con un’immagine aperta e dinamica per la mia scuola. E lo fa con tutti i couchsurfer che ospita. Semplice, lineare e preciso. Mi piace, ma dillo prima. Così almeno non mi aspetto il calore di casa trovato a Shiraz da Ali Reza e signora.
Le cose interessanti di tutta questa situazione sono due: la prima è che la scorta ha lasciato detto che alle 5,30 si parte per Zāhedān. Ed è un cambio di programma rispetto a quanto stabilito con i tedeschi, coi quali siamo rimasti di vederci alle 9 in frontiera. Proviamo a chiamarci a vicenda ma senza riuscirci. La seconda è che Hesam è visibilmente agitato dal tenere una moto bagagliata nel cortile di casa. Nei messaggi aveva detto che avremmo lasciato Sofia nel cortile del padre. Qui a casa del cugino non è affatto tranquillo: scarichiamo tutti i bagagli mettendone alcuni nella sua macchina e portando in casa gli altri. Dopo cena si accosta spesso alla soglia del balcone a origliare le voci che arrivano da fuori, continuando a rispondere “tutto ok” alle mie domande su cosa stia succedendo.
Quando fa lo stesso alla porta di casa, ritorna con la notizia più esilarante della giornata: la chiave dell’ingresso non gira. Siamo chiusi dentro. Quindi col cazzo che alle 5,30 saremo al posto di polizia.