Ci siamo imbattuti nell’ospitalità iraniana da quando siamo entrati nel paese. Ogni giorno decine di persone al nostro passaggio ci salutano, ci gridano “Hello!”, suonano col clacson o ci regalano cose per strada. La storia che vi racconto ora è esemplare di come funzioni la mentalità del popolo dello Stato Canaglia che tutti dovremmo temere in quanto gente pericolosa.
Dopo aver dormito per due soldi in una casa privata di Hawrāmān, arroccato sul fianco di una montagna, i programmi per la giornata sono più che ottimistici: vorremmo fare qualcosa come quattrocento chilometri per raggiungere la zona di Qom, città sacra per l’Islam Sciita. I piani falliscono miseramente: tra i lenti tornanti di montagna, una caduta senza conseguenze, un tentativo di cambiare denaro in una città minore (saltato per il cambio sfavorevole) e una sosta per strada in cui ci regalano una busta da un chilo di pomodorini, riusciamo a raggiungere solo la città di Kermanshah e il suo traffico apocalittico senza un rial e alla ricerca di un posto dove dormire. Ci indirizzano verso l’albergone a cinque stelle che neanche consideriamo come rifugio per la notte, ma solo come ufficio di cambio.
E non è facile cambiarli ‘sti soldi: la buzzicona di nero vestita alla cassa ci dice che sono autorizzati a cambiare denaro solo agli iraniani, pronunciando la sentenza in tono solenne e rammaricato, un po’ infastidita da Peppina che in peppinese agitato cerca di farle capire che siamo senza un soldo. Presagisco l’inizio di un conflitto uterino di fimmine incarognite e, per evitare il peggio, cerco di sfoggiare l’espressione da cerbiatto più tenera possibile, aiutato da un turista austriaco logorroico e sorridente col quale facciamo amicizia al volo.Come tutte le restrizioni governative, anche questa del cambio viene subito aggirata: un cliente dell’albergo mette il suo nome, nelle casse entrano cento euro, io intasco quattro milioni di rial. Tuttu ‘stu burdellu pe’ nenti! L’austriaco e sua moglie ci lasciano la loro password wifi e rimaniamo di fronte all’ingresso per controllare posta, dire alle famiglie che stiamo bene, comunicare a un couchsurfer che non raggiungeremo mai casa sua perché siamo due debosciati troppo lenti e disorganizzati.
Ospitalità Iraniana: chi la offre e chi ne approfitta.
Lì succede che arrivano un uomo e una donna, iraniani, in cerca di una stanza per la notte. Lui ha una faccia simpatica, con due bei baffi bianchi che fanno da contrappunto allo sguardo melanconico che si porta appresso. Lei, bassina e con i fianchi molto larghi, ha un viso appuntito nella sua rotondità, quasi un uovo visto insieme al velo, con le labbra sottili e gli occhi aguzzi. La sua faccia non mi piace. E mi piace ancora di meno quando attacca bottone con Peppina, lasciandomi sempre fuori dalla conversazione. Parla italiano Marjan: ha vissuto un paio d’anni a Milano e ricorda ancora qualcosa. Quanto basta per pronunciare un invito a casa sua. Solo che casa sua è a Tehran, non a Kermanshah dove ci troviamo ora.
Però la mia dolce metà, in quanto pitbull da risparmio domestico, continua a dirle che abbiamo bisogno di trovare una sistemazione economica. I due, che scopriamo essere fratello e sorella, ci dicono di seguirli. A me sembra una gran perdita di tempo perché questi non hanno una casa in
quella città e cambiano continuamente versione: prima dicono di conoscere un albergo economico, poi che ci portano in una casa modesta ché tanto a noi serve solo dormire per la notte. Dei due è lui a guidare, anche se privo dell’uso della gambe in seguito a un incidente avvenuto vent’anni prima.
Andiamo sempre più verso la periferia della città, della quale percepiamo la vastità. Ci fermiamo in una via poco illuminata perché Marjan ha bisogno di comprare del pane, mentre un poliziotto sceso dalla sua auto privata ci controlla sospettoso i passaporti, chiedendosi che ci faccia un’astronave in quella periferia. Tutto ciò mentre il mio scroto inizia a roteare sempre di più. Lo sbirro viene soddisfatto nella sua curiosità da Marjan e dal panettiere che scopriamo essere il nostro ospite per la notte.
Non capiamo cosa stia succedendo: io in particolare mi ritrovo circondato da voci urlanti che mi dicono di entrare con la moto nel laboratorio, tra i banchi in marmo su cui si fa il pane locale, una specie di foglio morbido che la gente porta in giro a bustoni. Mi ritrovo ad arrampicarmi con Sofia su un marciapiede alto e sgarrupato con la moto carica, mentre vorrei solo un po’ di tranquillità e ucciderei Peppina per avermi trascinato in quel caos. Ché la socialità è bella, ma ogni tanto farsi i cazzi propri fa pure bene. Marjan si muove bene all’interno di quella casa e viene trattata con deferenza da Hojat, il panettiere con gli occhi buoni e la faccia da bravo ragazzo.
Hojat il Buono prepara il narghilè Shabnam fa l’interprete
Mangiamo nel piccolo cortile sul retro io, Peppina e Marjan che, con la sua voce rasposa e li occhi aguzzi, non molla un attimo la mia compagna. È chiaro che nutre un debole per lei, palesato nel momento in cui inizia a canticchiare una roba in italiano tipo “amore mio ci sono io” difficilmente identificabile anche da una Donna-Karaoke come Peppina. Cerca sempre la sua attenzione, anche in maniera insistente, cercando di distoglierla dalla conversazione con le altre donne. La serata diventa piacevole quando lei rimane in casa a rompere il cazzo a qualcuno via telefono e il resto di noi in cortile a chiacchierare. Cosa che riusciamo a fare perché Shabnam, la cugina di Hojat in visita dal sud del paese, parla un buon inglese e per due giorni farà da interprete a una decina di persone. Hojat accende per noi il suo narghilè, che qui chiamano shisha,mentre tutti rifiutano di fumare il nostro tabacco.
Parliamo di noi e del nostro viaggio. Diciamo di essere sposati da un anno anche se non ci piace raccontare bugie: lo diciamo per non essere mal visti ma scopriremo nei giorni passati in questo paese che in fondo non gliene fotte niente quasi a nessuno. L’ennesimo pregiudizio che cade di fronte all’esperienza diretta. Le donne di casa sono tra di loro sorelle e i giovanotti i rispettivi figli. Sono tutti molto simpatici e amichevoli e con tutti si cazzeggia allegramente. Il padre di Hojat indica sua moglie, che scatta foto a raffica con lo smartphone, mettendole sulla testa la propria mano e dandosi un bacio sulla stessa, in mezzo alle risate generali.
Gesto che ripeterò anch’io quando parlerò della mia adorabile compagna. Ci dimentichiamo della strega al telefono fin quando non arriva l’ora di sistemarsi per la notte, quando ce la ritroviamo davanti in cerca di attenzione. Dormiamo tutti, o quasi, sul pavimento del soggiorno rivestito di comodi tappeti. L’unico a dormire nell’altra stanza è il fratello della strega, col quale ho scambiato qualche parola dopo aver aiutato Hojat a tirarlo fuori dalla doccia. Continuiamo a chiederci chi sia questa donna trattata con tanta deferenza: più volte abbiamo le chiesto se conoscesse questa famiglia, se fossero loro parenti. Ci ha sempre risposto “Mai visti prima. Qui in Iran si usa così: se qualcuno ha bisogno lo si accoglie in casa per la notte. È l’Ospitalità Iraniana”
L’amichevole sequestro
Dovremo andare via la mattina dopo ma tutti ci vogliono ancora lì. Noi decidiamo di restare, Hojat decide di non aprire bottega: ci farà da cicerone al bazar dove andremo insieme a Shabnam e Marjan, sempre più insostenibile nel suo protagonismo acido. Fa caldo e Peppina è la prima a non sentirsi bene, riprendendosi solo dopo una sana bottiglia d’acqua. Io invece vado in astinenza da caffeina, che si fa sempre più forte col passare dei minuti, ritrovandomi dopo un paio d’ore con la sensazione di due arpioni ben ancorati alla nuca che mi trafiggono gli occhi senza tregua. La strega sta chiaramente sul cazzo a tutti, ormai stanchi della sua voce e dei suoi modi. In particolare a me provoca inquietudine il suo nascondersi la bocca col velo, mentre ride o sorride (sogghigna) guardando di traverso. Lo fa perché le manca un incisivo, ma l’effetto complessivo è quello delle fattucchiere persiane dei polpettoni storici che si giravano a CineCittà negli anni ’60. E potrebbe essere ‘na cosa tipo “Maciste e la strega del deserto”.

Il fastidio mio e di Peppina verrà definitivamente allo scoperto mentre compriamo un pacco di pasta per offrire ai nostri nuovi amici una cena italiana: prima insiste sul fatto che non dobbiamo pagare, poi mi mette le mani nel portafogli per prendere i soldi, con i quali ancora non ci orientiamo bene (ma questo lo fanno un po’ tutti). A turno ci ritroviamo a urlarle contro che noi usiamo così e ‘sticazzi che l’ospite in Iran non deve pagare: Hojat ha già pagato il taxi bloccando ogni tentativo da parte nostra di fare altrettanto, ci pare già meno del minimo ricambiare così.
Il ritorno a casa è per me un inferno: la testa mi gira e la musica persiana (fichissima) che pompa dalle casse del taxi mi rimbomba scombinandomi. Neanche il pranzo mi aiuta a riprendermi, anzi mi ritrovo a collassare sulla pedana nel cortile, coprendomi gli occhi con un mio calzino bagnato, fresco di lavaggio. Mentre cerco di riposare gli occhi e la testa sento la strega continuare a chiamare il mio nome, prima da dentro casa, intimandomi di riposare. Poi la sento dritta nelle orecchie, a mezzo metro da me, a ripetere ruvida il suo ammonimento. Ché se vedi uno che cerca di riposare, che cazzo gli urli a mezzo metro di dormire ?
Peppina riesce ad allontanarla (in malo modo) e io riesco ad addormentarmi per un po’. Quanto basta per non trovare più al risveglio né la stronza né il fratello, che mi lascia i suoi saluti. Strani personaggi: lei una strega che ha fatto i cazzi suoi in una casa di gente completamente sconosciuta, lui un pallonaro di primo livello: Mi diceva di essere businessman “not number one, but number two or three in Iran”, mentre spacciava la sorella per proprietaria di un ristorante di millecinquecento metri quadri a Tehran. E due così non hanno i soldi per una notte in albergo o farsi incapsulare un incisivo? Misteri dell’Umanità.

Con piacere trovo invece Peppina seduta in cerchio con le donne e i ragazzi a fare scambi culturali sulle canzoni popolari. Arriva un çay, poi un altro e finalmente un caffè! La vita sorride di nuovo. Scopro che la Strega stava sul cazzo a tutte le donne, e per questo non hanno mai mangiato con noi. Dico loro che secondo me mi ha lanciato una botta di malocchio: scoppia una risata generale accompagnata da brusio e gomitate di complicità. L’hanno pensato anche loro con tutto quel chiamare “Antonio, Antonio” che continuava a urlare. Gli dico dei rituali di mia madre e mia zia per togliere il malocchio (che lì si chiama chejmebah), una delle donne mi spiega il suo. E lo mette in pratica per noi! Si mettono delle erbe profumate in un pentolino e si pronunciano i nomi delle persone da cui allontanare invidia e malevolenza, poi si mette sul fuoco fin quando le erbe non si infiammano purificando l’aria dalle energie negative, mentre tutti respirano le esalazioni per meglio liberarsi. Fantastico!
Scoprirsi più simili del previsto

Siamo ormai di casa e i veli sulla testa delle donne possono anche scivolare senza pensieri, che tanto nessuno ci tiene per davvero. Peppina fa un chilo e mezzo di spaghetti coi pomodorini regalatici il giorno prima per strada e, inutile dirlo, ognuno li mangia e li condisce a modo suo, chi con spezie varie, qualcuno li mangia col suo foglio di pane. Entriamo in confidenza così tanto che il fratello di Shabnam mi fa vedere le foto della fidanzata, di cui la madre non sa e non deve sapere: una con un castissimo velo, l’altra con un vestitino sexy all’occidentale.
Lo facciamo coi giochi dei bambini: le cantilene, gli intrecci di spago da sbrogliare con le mani, lanciare sassi in aria e raccoglierli. Mentre stiamo lì a fare i pargoli da quaranta a sessant’anni mi viene in mente che queste sono le persone che vorrei rivedere di tanto in tanto, magari per un pranzo il venerdì o bussare a casa un pomeriggio a caso con un pacco di dolci per bere un çay. O magari farmi togliere il malocchio quando le cose vanno male. Gente semplice con cui chiacchierare in tranquillità, senza troppi grilli per la testa.
Mohammed, il cugino, invece mi mostra la foto che tiene con se dello Shah di Persia, di cui è nostalgico senza aver mai vissuto il suo regno. Dopo cena andiamo da un amico di Hojat che ci fa connettere col mondo. Hojat mi prende la mano, come qui si usa fare tra amici stretti senza tema d’esere derisi. La cosa mi imbarazza un po’, ma alla fine mi rendo conto che dà una sensazione di sicurezza e fratellanza non da poco: in fondo l’ultima mano maschile che ho tenuto è quella di mio padre tanti anni fa. Camminiamo al chiaro di luna mano nella mano, con Peppina che mi sfotte e io che le rispondo che il rimorchio vero l’ha fatto lei con la Strega.
I saluti la mattina dopo sono difficili.

Ci abbracciamo tutti indistintamente. Nelle mura domestiche posso abbracciare anche le donne, andando oltre la legge che vorrebbe non ci fossero contatti promiscui. L’abbraccio più difficile è quello con Hojat e Mohammed, tra lacrime copiose che trascinano anche me facendomi commoziare assai, nel momento in cui Mohammed mi mette al collo una collana d’acciaio che porta addosso.
‘Sti cazzo di terroristi mi hanno fatto piangere tanto, fino a tanti chilometri dopo i saluti. Anche perché appena mi riprendo, dei bambini da un auto ci salutano e ci porgono delle mele. Un popolo pericolosissimo che alleva belve da assalto. Con gli amici di Kermanshah riusciamo a comunicare di tanto in tanto mandandoci qualche foto con WhatsApp, ché non abbiamo una lingua in comune. E ogni volta che li penso è una dolce fitta al cuore. Se mai ritorneremo in Iran, Kermanshah è una tappa obbligata. Ché dice che lì c’è gente buona. In realtà quasi a ogni tappa riceviamo inviti da sconosciuti che ci vogliono ospitare a casa loro per dormire o per un pasto o un semplice tè. La cosa in sé ci provoca un misto di commozione e imbarazzo per la schiettezza con cui ci viene offerta quest’accoglienza, anche se il più delle volte ci offrono da dormire quando già ce l’abbiamo.
Ok, fin qui la poesia. Ma non è sempre così.
Alcune volte è davvero troppo anche per dei tamarri sociali come noi, come il pomeriggio prima dell’inizio di questa storia, quando avevamo programmato di fare un giro tra i villaggi curdi al confine con l’Iraq (in Iran non si rischia il linciaggio a parlare di Kurdistan Iraniano): avevamo sbagliato completamente strada, saltando il villaggio di Palangan, e cercavamo di capire in che punto dell’itinerario ci trovassimo. Non fidandoci del Garmin, abbiamo iniziato a chiedere info per strada a un giovane figaccione locale non parlante inglese. Si avvicina un tizio sulla trentina, lui sì parlante inglese, dandoci indicazioni confuse e contrastanti. L’unica cosa certa era che volesse invitarci a casa sua a mangiare e dormire. Che ci sta pure e sono contento, ma non se il sole cala nel giro di due ore e casa tua è in direzione opposta alla nostra destinazione: in tutto avremmo dovuto farci qualcosa come centotrenta chilometri di tornanti in tre ore, visita al villaggio compresa, per accettare la sua ospitalità.
Continuava a dirci di non avere paura, che lui ospita sempre gente, che a casa sua si mangia benissimo: sì, ma io voglio sapere dove minchia sono per poi perdermi in un villaggio di fango, e non sapere dove vivi tu. Per farla breve ho ingranato la prima, ho fatto inversione e siamo andati via verso Hawrāmān, smadonnando un quarto d’ora per la collosa ostinazione del Tipo.
E anche tutti questi “Hello Mister!”, “Gueràiùfròm” e via discorrendo stanno pure un po’ sul cazzo quando sei imbottigliato nel traffico, a moto carica e gambe in ebollizione tra stivali e motore, e tutti ti tagliano la strada per strafottenza locale o, peggio ancora, per la curiosità di vederti meglio o per salutarti. E anche la polizia rispecchia questo costume: ai vari check point all’ingresso delle città, per strada quando ci intimano di accostare, quando sono armati di autovelox.
Quando ci fermano è per chiederci da dove veniamo, dove andiamo, che cilindrata è la moto per poi concludere con un “Welcome to Iran!”. Che vorresti dirgli “Sì, ma stavo andando a 130, dovresti farmi un multone, cazzarola!”. Ci sono situazioni in cui è difficile venir fuori, come quando il sole cala e fai l’ultima tappa prima della città di destinazione e tutti gli avventori del posto, che sia una pompa di benzina o un bar non importa, iniziano a chiederci di farsi foto a raffica insieme a noi.

Arriviamo con una moto tre volte più grande delle loro, bardati come cavalieri e attrezzati come profughi, impolverati da quasi diecimila chilometri di strada. Alle loro domande su che stati abbiamo attraversato snoccioliamo nomi di nazioni che loro per ora non possono visitare, rispondendo nella loro lingua o in un inglese stentato. Se passassero davvero Bono Vox e Madonna non se li cacherebbe nessuno, mentre noi siamo per loro una coppia di personaggi fantastici, un’ esperienza preziosa da ricordare, persone a cui si vuole bene per forza a prescindere.
È uno dei lasciti di quel genio di Maometto, dichiaratosi ultimo Profeta dell’unico Dio, che ha imposto codici e regole di comportamento per ogni aspetto della vita. E il viaggiatore è quasi sacro, qui sulla Via della Seta. E questo è bellissimo, ma tante volte seccante e fastidioso. E so già che al ritorno in Italia tutto questo mi mancherà come l’aria, anche il tipo che vuole farsi un selfie con te mentre lo uccideresti perché mancano cento chilometri alla meta ed è già buio.
È un paese pericoloso l’Iran: si rischia seriamente il contatto umano, senza se e senza ma.
